La scrittrice italiana – autrice tra gli altri del celebre “L’arte della gioia” pubblicato postumo - nel 1980 passa due mesi nel carcere di Rebibbia per aver commesso un furto. Da quell’esperienza ne uscirà cambiata, come cittadina e scrittrice: una consapevolezza dolorosa facendosi strada in lei le suggerirà la necessità di scrivere un libro, sintesi suprema di quest’esilio. Una descrizione cruda e commossa della popolazione del carcere, delle forze che invisibili ne muovono i fili e i pensieri, forze centrifughe a cui nessuno sfugge; delle ombre che il ‘Fuori’ proietta all’interno delle mura e i mostri che dall’ombra si generano e impestano le piastrelle sporche dei ballatoi. Nulla che assomigli a un trattato o a un saggio: è il diario dallo stile immaginifico di un viaggio al termine dello Stato.
Come scrive Aline Roudet, in “L'Università di Rebibbia: un giorno in prigione, la rivoluzione senza rivendicazione”:
<< Il modo artistico serve per la trasfigurazione di una forma da banalità della prigione, raggiungendo un'utopia che trascende conflitti e atti rivoluzionari: l'atteggiamento rivoluzionario non è fine a sé stesso. Se l'utopia è letteraria, la rivoluzione è reale e lei rimane frapposta tra le due. Non è parte della quotidianità brutale della prigione perché vive già in un altro mondo, quello letterario, dunque non può avere conflitti. >>
E ancora:
<< Il tempo del racconto eclissa quello della vita e l'immaginazione permette di fare sorgere la dolcezza. La scrittura non è il luogo per risolvere la conflittualità ma piuttosto per proporre un'alternativa. >>
Goliarda Sapienza era convinta che il proprio paese si potesse conoscere solo conoscendo il carcere, l’ospedale e il manicomio. Il carcere in particolare è sempre stato e sempre sarà la febbre che rivela la malattia del corpo sociale. È infatti spazio sempre vivo di contraddizione: tutto ciò che il lucore grigiastro che piove dai finestroni illumina è umiliante ed erosivo, è scintilla pronta ad accendere la pazzia o la depressione, ma allo stesso tempo è un fedele spettro della società che lo produce e sua massima deformazione. Pur non essendoci felicità, l’individuo si travisa al punto che il carcere diventa la sua casa. Diventa il posto d’elezione.
Spazio imperscrutabile con leggi oniriche di dilatazione e contrazione i cui confini labili tracimano in spazi psichici di sterminata estensione. Il carcere regredisce all’infanzia. I detenuti non hanno il diritto di toccare più la moneta: simbolo di autonomia, identità, misura fragile e fredda del tuo posto nella società. Le notti in cella d’isolamento sono sorvegliate da una lampada a soffitto che non si spegne mai. L’autorità si esprime nel violento scarto di potere che spezza in due il carcere, c’è una distanza insormontabile tra chi ha la possibilità di fantasticare su entrambi i lati delle mura e chi per sopravvivere non può che confinarsi al loro interno.
<< Nulla può spazzare via l’atrocità nell’essere espulsi dal consesso umano e lasciati a marcire in questi luoghi che fuori si ritengono pensati solo per pochi delinquenti abituale, e che quando ci sei dentro invece scopri essere vere grandi città.>>
Infuoca la contraddizione che alimenta il sistema. Tanta degradazione porta a una forma di comunione laica dell’esperienza. L’uomo è forte e si abitua. Si torna a vivere in una piccola collettività dove le azioni sono riconosciute e tutti capiscono perfettamente chi sei. Anche chi occupa il posto più ‘basso’ di questa collettività ha un ruolo accettato da tutti.
In un regno dove tutto è perduto, fondato sulla coscienza profonda di essere ormai estranei alle leggi che regolano il vivere di fuori, non vige forse la libertà assoluta? Che potrebbero farti più di tenerti rinchiuso? Lo fanno già.
In quel regno dell’eccesso, senza misura alcuna, la comunicazione si fonda su un linguaggio primo che non conosce sfumature. Lingue, dialetti, diversità di classe e di educazione sono spazzati via come inutili mascherature dei veri movimenti del profondo.
Movimenti essenziali, che non sappiamo più ascoltare e che sono rumorosissimi segnali d’una realtà Altra in esplosiva collisione con quella che tra siepi di silenzi e false rassicurazioni abbiamo eretto a protezione nostra. Il carcere ci terrorizza perché racconta qualcosa che non sappiamo più ascoltare: che le classi hanno solo mutato forma e che in un incessante riprodursi di vincitori e vinti ancora determinano un destino.
Tanta radicalità può essere eloquente come null’altro per imparare a leggere, analizzare le nostre ipocrisie e ciò che ci fa paura e allontaniamo. Dove s’arresta la nostra definizione di umanità e perché s’arresta.
Il carcere è come fuori e per non ammetterlo lo abbiamo oscurato. Ma più l’attenzione viene distolta e si fa distratta, più esso grida quel che dimentichiamo, quel che non sappiamo.
<< In questo luogo arriva – anche se per vie traverse – l’unico potenziale rivoluzionario che ancora sopravvive all’appiattimento e alla banalizzazione quasi totale che trionfa fuori. >>
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