L’Agnosticismo è un rifiuto di qualsiasi interpretazione della realtà che non sia aderente ai fenomeni riscontrabili oggettivamente nel mondo; è indifferenza verso l’Intangibile e l’Ignoto: l’esistenza stessa di ciò che eccede la realtà fenomenica viene piuttosto che rifiutata, sistematicamente trascurata.
In senso lato acquista valore politico, scientifico, sociale: quell’indifferenza si estende e riveste le questioni etiche e quelle di natura morale, ogni presunta fede e verità trascendente; ciò che ancora indefinito o troppo astratto si insinua nel nostro complesso sistema di valori.
Ci concentreremo soprattutto su questa definizione più confusa e sfocata ma che collide rumorosamente con la nostra esperienza.
L’agnosticismo in tal senso sembra fondato su una versione un po’ deformata e impropriamente ampliata dell’idea che Wittgenstein scrive nel celebre Tractatus: “i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mondo”. Ma questo concetto calato nel mondo volgare, quotidiano e incoerente, produce un equivoco pericoloso: i limiti non vengono onorati da questo sguardo a distanza ma sviliti, resi inermi.
Ci poniamo in un rapporto di subalternità a quei limiti, che così non ci appartengono e rimangono altro da noi.
Potrebbe bastarci il solo fatto di esplorarli ed estrarre tutto quanto possono dirci sul sapere che confinano, cosa fare però di ciò che eccede quei limiti, di ciò che lì sull’orlo non si mostra completamente? E quanto ignorarlo può renderci capaci di leggere e interpretare quel che racchiudono?
Pensiamo alla meccanica quantistica e alla posizione agnostica che per anni ha trovato spazio nella comunità scientifica: nulla si può dire sulla natura di una particella poiché prima che si effettui una misura, su di essa non abbiamo alcuna informazione – se non puramente statistica. È ragionevole sostenerlo, nulla ci viene mostrato per certo, e ciò che è incerto non è indagabile con gli strumenti della fisica, né con gli strumenti matematici che abbiamo sviluppato per sostenerli.
L’inganno è porci nella prospettiva per la quale veniamo posti di fronte a un muro: questa realtà è ben descritta nel suo funzionamento, meno o per nulla nella sua essenza, che è materia per la metafisica o per la religione.
Quel dubbio, la cui risposta sfuggiva a quel linguaggio apparentemente perfetto, è stato in piccolissima parte arginato da un teorema successivo, nato dallo scontro tra le altre due posizioni, quasi antitetiche, che sostenevano l’una l’esistenza della particella e l’altra l’inesistenza negli istanti precedenti alla misurazione.
Il risultato fu un bivio: una delle due è corretta, la posizione agnostica non è più ammissibile.
La domanda centrale che ha permesso di immaginare una strada e provarne la percorribilità è nata da una tensione verso qualcosa che pareva inconcepibile, la messa in discussione del nostro ruolo all’interno del configurarsi armonico delle cose.
E solo allora quei limiti si fanno guida, indirizzano la Ricerca che la posizione agnostica inibisce.
Non possiamo nasconderci dietro il mito di una Ricerca che sia sempre cauta ed equa, che rinneghi ogni inferenza di ciò che non è plausibile.
Un altro esempio è l’insieme di errori e ossessioni che ha portato allo sviluppo della geometria noneuclidea.
La geometria euclidea inizialmente pareva problematica da un punto di vista puramente estetico – la ricerca si era sviluppata intorno alla dimostrazione del postulato che esprimeva il concetto di rette parallele, considerato troppo sgraziato e complesso perché fosse dato a priori – ma la teoria descriveva perfettamente i concetti geometrici che maneggiavamo e non veniva messa in discussione.
Solo dopo secoli di teorie che si accavallavano l’una sull’altra, tutte naufragate in vicoli ciechi, la fede cieca, la follia e l’ossessione di alcuni matematici ha partorito una geometria diversa e da essa diverse altre, che sovvertono le definizioni di retta e di punto, nelle quali i triangoli hanno una somma degli angoli interni maggiore o minore dei centottanta gradi a cui siamo abituati. Hanno sfidato l’inconcepibile perché incapaci di arrendersi a quel limite.
Il punto è che quel Limite non l’hanno rifiutato, ma colto in tutto ciò che rappresentava.
Allo stesso modo l’ateo si pone di fronte ai propri limiti – Sisifo regna su quel crinale - e li ammette in tutta la loro portata. E se pure Camus non sarebbe d’accordo, il credente ugualmente lascia che la sua scelta si poggi su quel confine.
L’agnostico rifiuta il contatto con sé, ha paura di ammettere ciò che non esiste sia reale. Che l’elettrone c’è e non lo vede o non c’è e non può vederlo.
Che il Limite sia della realtà o del nostro linguaggio, non ammettere questa tensione è affidarci a ciò che resta. È estrometterlo.
In un certo senso, agnostici o lo si è sempre o ogni volta in cui si ricorre a una posizione così definita si genera una contraddizione.
Non ammettere quest’indifferenza, questa stasi nell’arte, e forse è più semplice immaginarlo, significa non ammetterla mai.
Verrebbe spontaneo domandarsi come si possa evitare la trappola del dogmatismo. Presa coscienza dell’impossibilità di un’inerme neutralità, che è semmai una posizione affermativa - opposta e non contraria a quella che si sceglie di non giudicare -, e della tragica tensione rivelatrice e feconda che solo un una scelta, a volte cieca e ossessiva, ma sempre coraggiosa, può innescare, sembra un rischio naturale quello di divenire schiavi di un sistema chiuso e circolare, che trova nell’auto confermazione la sua sussistenza.
Ma nulla, nella negazione ontologica dell’agnosticismo, presuppone un eguale rifiuto pratico dello scetticismo più consapevole, fintanto che esso si proponga non tanto come interpretazione del mondo quanto più come dispositivo per affrontarlo.
L’elemento fondativo di una posizione scettica metodologica rimane la comprensione dell’assenza di una reale e piena conoscenza; una profonda attestazione dei nostri limiti più intimi. Quando l’agnosticismo presuppone il Nascondimento dei nostri limiti.
La scienza è costitutivamente scettica.
Ciò presuppone una ricerca continua, che permetta di porsi in una prospettiva in questo caso sì contraria e non sterilmente opposta, alle tesi di partenza.
Pur partendo da una posizione prettamente scettica del tipo: tutto è relativo e pertanto non si può far altro che astenersi da ogni giudizio definitivo, si ammette e si pratica uno sforzo dimostrativo, la perpetua messa al vaglio della logica di ogni convinzione e sensazione. Sarebbe così dogmatico e approssimativo, raccogliere la chiamata all’astensionismo ideologico per una fredda considerazione teorica, dai tratti semi mistici.
Ogni dubbio esige una risposta, e la consapevolezza che forse, al profondo di ogni questione, essa non ci sia o una non sia preferibile a un’altra, non implica l’inazione ma anzi rafforza quella tensione costante, sempre trascendente e mai solo contingente, che ci porta a sviscerarle e viverle sulla nostra pelle.
Pure uno scettico, s’incammina.
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