Perché no:
Ripubblicare contenuti sui propri social è, molto spesso, un modo per pulirsi la coscienza, per dare sfogo ad una indignazione che è solamente passeggera e quindi inutile, schiava di quella logica da social che in primo luogo l’ha generata o semplicemente contingente ad una notizia che è diventata, dal punto di vista sociale, monetizzabile.Certo questo ragionamento non vale per tutti/e, c’è chi si crea una propria credibilità o qualcuno potrebbe anche dire che ha preso coraggio grazie alla condivisione di contenuti e le conseguenti parole di conforto, ma la maggior parte delle persone dà un peso irrisorio ai contenuti propri e degli altri. La prova del 9? Nella maggior parte dei casi si vede ricondiviso lo stesso identico contenuto, dalla stessa identica fonte, sintomo lampante di una volontà che non sta cercando di ricostruire un contesto ma che si sta muovendo con lo scopo di ottenere un distintivo di virtuosità dalla breve durata vitale.
E criticare questo tipo di meccanismi non significa disdegnare l’uso dei social nel loro complesso o di criminalizzare chi magari non ha altri sbocchi per comunicare. Meme, canali youtube, pagine di realtà locali, riviste indipendenti, i social danno ancora la forza di connettere le persone con chi potrebbe arricchire la propria coscienza sociale e politica ma tutto finisce sull’altare di pagine e giornali con titoli clickbait.
Diffidate dalle persone che condividono solo quando c’è il nullaosta mediatico perché a quel punto quella ricondivisione non serve più a niente, non si traduce in una presa di posizione ma solo in un seguire un’onda che per una volta non è stata quella del silenzio ma lo sarà di nuovo domani e il giorno dopo ancora finché un’altra presa di posizione, probabilmente non troppo forte, verrà a bussare la porta.
Quando le ricondivisioni in massa hanno inizio in qualche modo la partita è stata vinta, l’attenzione mediatica si è spostata ma questo significa che c’è stato anche il fischio finale. La vera partita si è giocata prima, in maniera meno vistosa ma più rapida. Perché e quello che rimane nelle chat, nei meme, che verrà ricordato, tutto il resto svanisce
Perché sì:
Anneghiamo in un vortice di informazioni e contenuti volti a sconvolgerci, ad accendere le nostre coscienze e poi a intorpidirle: i media dialogano con noi con una lingua mozzata e incespicante che annacqua i fatti privandoli di un contesto. I social hanno usurpato stampa e televisione del Quarto Trono del potere che questi hanno occupato nel corso del secolo scorso all’interno degli equilibri democratici. L’autorictas della fonte è stata svilita, umiliata e la logica dell’uno-vale-uno ha abbattuto ogni filtro, riducendo la competenza a mera formalità.
La democratizzazione estrema dell’informazione ha permesso che si alzasse un concerto di voci – certo spesso rumoroso – e un contraddittorio costante – per quanto spesso aggressivo e violento – e ha spogliato le testimonianze degli orpelli dell’ufficialità e delle investiture. Non è stato il funerale della verità: concetto sfuggente e non certo al riparo dietro i nomi dei giornali, delle targhette e delle cariche, tanto riconoscibili quanto potenti e perciò esposti a influenze, interessi e inferenze. La verità è sempre stata e sempre sarà inafferrabile.
Oggi viene solo nascosta da un collage di fatti e artifici. Noi a nostra volta, pur con le nostre scelte passive, con l’indifferenza, diventiamo megafoni e casse di risonanza: i contenuti di cui fruiamo costruiscono direttamente l’ambiente condiviso della virtualità. Non è un loop che si possa rompere: ci viene chiesto di prender posizione costantemente, di definire e ridefinire il nostro universo valoriale, di mostrarlo, di imbracciare le idee come armi, di esser pronti a difendere strenuamente le nostre convinzioni fino a fare coincidere con l’immagine pubblica che proiettiamo; pur l’estraneità a ogni fatto del mondo disegna uno spazio abitabile.
Come uscirne allora? Allontanandoci, disdegnando, ritornando a una fruizione tradizionale che neppure più esiste? Non è certo una sorpresa scoprire che gli organi di informazione hanno assunto lo stesso linguaggio e gli stessi tempi dei social.
Possiamo tornare alla funzione principe dei social network: che è la condivisione, il consiglio, il contatto rapido e libero con l’altro – che è certo distante e forse persino sconosciuto, ma pure inevitabilmente solo in quel contatto. Per farlo dobbiamo emanciparci dall’idea di un dialogo con tutti-gli-altri, ritornare a selezionare l’interlocutore così da poter dare e ricevere. È così che condividere la propria battaglia, la vicinanza a un’istanza o una causa può sublimare la preziosa funzione di questa rete: dare uno spazio a questioni che il quotidiano divora e oblia.
Dobbiamo però rovesciare l’imperio della moda – non necessariamente della rapidità – ed evitare di ricondividere lo-stesso e il già-visto. Fornire agli altri uno spiraglio per discernere nel fittissimo mosaico dell’informazione una casella interessante, fosse anche perché ha parlato a noi, senza la pretesa di svenderla come verità. Ritornare a far nostro lo spaventoso atto d’Adesione.
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