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Apologia del Suicidio Artistico

Immagine del redattore: tentativo2lstentativo2ls

Aggiornamento: 2 giorni fa

Joker Pholie a Deux è due film diversi: uno pessimo e uno straordinario.


È pessimo, perché smemorato e distratto, spesso macchinoso e didascalico, come fosse un’opera concepita e assemblata con l’ansia di non aver il tempo necessario per chiudere le parentesi aperte dalla sceneggiatura. Verrebbe da pensare che a far padrone sul set fosse il terrore del fallimento, e che quel terrore, figlio dell’asfissiante e persecutoria eredità del film precedente, abbia permeato, infettato ogni idea. Personaggi appena tratteggiati orbitano dentro e fuori dai bordi dell’inquadratura, sfiorano il macchiettistico, risultano infine afoni e sfocati. È un ritratto che rimane abbozzato e scolorito, pieno di sgrammaticature. Poco viene approfondito, nulla risolto. L’ombra, scarnita fino alla trasparenza, del primo Joker.


 Eppure, è anche straordinario. Il film dimentica sé stesso e i suoi antenati e si fa cieco a un destino in procinto di srotolarsi: si dà, totalmente, al discorso meta-cinematografico e in un impeto autolesionista, a esso tutto sacrifica. Ogni dialogo messo in scena rimanda a un dialogo extra-scenico e al un più ampio dibattito che è fermentato intorno all’opera; i luoghi e chi popola diventano dispositivi metaforici utili a far deragliare lo sguardo verso ciò che l’immagine cela: una rappresentazione spietata e polemica del triangolo amoroso spettatore-autore-industria. È un film che trova una ragion d’essere nel sogno che infrange.


L’attenzione su quest’opera deve seguire due strade parallele: illuminare il tentativo – questo sì – fallito di creare un’opera Altra e visionaria e mostrare i tratti da saggio audiovisivo che emergono senza paura alcuna, né di appesantire né di deludere.


Bisognerà tralasciare una critica che si concentri sugli sviluppi narrativi – l’evoluzione dei personaggi, le relazioni che intessono tra loro e il perpetuo rapporto con l’ambiente di fantasia che fa da sfondo – a favore di un’analisi meno precisa e più miope, che tenti d’afferrare quello che appena si intravede. Joker Pholie a Deux rovescia tutto ciò che è stato fatto nel primo film. Pur se la trama lo prosegue, l’intenzione cinematografica è uguale e contraria: la costruzione formale, di natura fondativa, d’un genere – una sorta di cinecomic ‘da festival’ più che una versione moderna e cupa dei cinecomic d’autore che già negli Spiderman di Sam Raimi e nei Batman di Tim Burton e di Christopher Nolan avevano trovato grandi esempi – viene demolita dal secondo capitolo da una cinica riflessione: non c’è modo in cui quell’ibrido, ambizioso e rivoluzionario, possa risolvere la tensione che lo tiene unito. L’inizio di una Legacy che faccia del Joker un nuovo mito cinematografico non può coesistere con le ispirazioni – molto viene preso in prestito da Scorsese, si pensi anche soltanto a Taxi Driver – noir e il lavoro di penetrazione psicologica su Arthur Fleck e l’esigenza di una lentezza, che si fa spesso suggestione visiva ma nulla tralascia in termini di realismo. Dei due l’uno.


Per questo Joker sarebbe dovuto essere un film unico – senza sequel né prequel.


Todd Philips rifiuta la sintesi tra questi due mondi contigui. Non ne fa un discorso di natura ontologica ma rigetta l’idea che la strada per la rinascita dell’industria possa passare da qua. Così Lady Gaga – Harley Queen – non è altro che la figura caricaturale del fan, bramoso d’una definitiva ascesa del Joker, di una nuova maschera dell’antieroe che fu di Heath Ledger, che prima era stato di Jack Nicholson e ora è di Jared Leto. Innamorata del re del crimine di Gotham. Philips concede e poi strappa questo sogno, al pubblico tanto quanto a sé e all’industria del mainstream. Costruisce fino a fine film quell’immagine che la fantasia degli spettatori già aveva precisamente delineato: l’uomo risucchiato dal gorgo dell’ossessione e della follia, sorretto da una folla di pazzi veri e presunti, che reso idolo oscuro medita la propria vendetta dai bassifondi. Poi la sottrae alla presa. Joker è stata un’occasione di trasfigurazione, potente, mossa da un’urgenza vitale, che non potrà mai essere possessione, né mai cartoonesca figura ai confini del concepibile. Per l’anarchica cecità del primo bisogna rinunciare a la complessa traumaticità del secondo.


C’è qualcosa di prezioso nell’operazione superba e polemica di un regista che accorgendosi d’aver perso la presa sulla sua propria creazione – pur se mai l’avuta dal momento che ogni sovranità artistica è finta, irrealistica – ne uccide, come Medea, i figli?


I gesti artistici che sovvertono aspettative e logiche produttive hanno un valore intrinseco da preservare. Qualcosa vorrebbe dirci Todd Philips su questo fragile trascinarsi per gli eventi, tra gli eventi, desiderando molteplici versioni e repliche di ciò che ci è piaciuto.


Si interroga sugli spazi cinematografici residui, resistenti a revival e remake, sottendendo una domanda: quel primo Joker poteva esistere nascendo da un dibattito così intransigente, in uno spazio già occupato e battuto infinite altre volte?


Vorremmo un altro Joker – il primo – ma lo inseguiamo chiedendo dei surrogati di quell’esperienza.


Quanto è importante che Joker Pholie a Deux sia un film riuscito male? Lo è nella misura in cui non verrà interpretato e rimarrà pane solo per la critica. E allora della critica sarà il compito di spiegarcelo: come un suicidio serva per rinascere. Continuamente rinascere e rimanere vivi.

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