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Un uomo che dorme: Un viaggio introspettivo leggendo Perec

Immagine del redattore: tentativo2lstentativo2ls


“Hai venticinque anni e ventinove denti, tre camicie e otto calzini, qualche libro che non leggi più e qualche disco che non ascolti più. Sei seduto e vuoi soltanto aspettare.”


Qualche tempo fa mi sono imbattuta in un’opera dell’artista concettuale Bas Jan Ader: I’m too sad to tell you. L’opera esiste in tre forme: come film, come fotografia e come cartolina, tutte rappresentano lui che piange per un motivo sconosciuto, mai rivelato, proprio perché “è troppo triste per dircelo”.


Ci troviamo davanti il rumoroso silenzio di quella cruda emozione che è l’angoscia, la tristezza, sentimenti ai quali non riusciamo a sottrarci e che, quando raggiungono l’apice, ci costringono a una battuta d’arresto.


È così che inizierei a descrivere il romanzo di George Perec Un uomo che dorme. Di fatto, è un libro senza una trama specifica, in cui la scelta di una scrittura disomogenea e non lineare è assolutamente significante per aderire al meglio all’oggetto della sua osservazione: la condizione umana.


Il protagonista è un ragazzo di venticinque anni, uno studente squattrinato di Parigi, del quale non ci viene detto nemmeno il nome. Una mattina, invece di alzarsi, vestirsi, uscire e andare a fare un esame di sociologia all’università, decide di rimanere a casa e continuare a dormire. La sveglia continua a suonare, ma lui non si muove di un centimetro, continua a stare a letto e richiude gli occhi. Nel frattempo, la città comincia a riempirsi di rumore, ma lui non si muove e non si muoverà, osserva il soffitto e le sue crepe, vuole soltanto aspettare e dimenticare


Tutto comincia da questo suo non-gesto, il quale interrompe la linea del suo “dover essere e dover fare”. Qualcosa si è rotto. Il protagonista è svuotato, apatico, passivo, non ha reazioni, non combatte più.


Noi lettori lo seguiamo nel suo vagabondare per la città come un sonnambulo, un flâneur tra la folla dei Grands Boulevards, solo, senza più alcun desiderio. Il giovane è immerso nell’atarassia più totale e, tra una riga e un’altra, vediamo il suo io scomparire, diventare un fantasma. Il suo è un atteggiamento che, generalmente, non viene tanto apprezzato dalla vita moderna, intorno a noi vediamo sempre privilegiare l’azione, i grandi progetti e l’entusiasmo, ma adesso niente più resta di quel movimento proiettato in avanti, che da sempre siamo portati a identificare con la nostra vita, o meglio, con il suo senso.


«La sua è una ribellione contro il dover essere, contro l’imperativo dell’attività. L’uomo che dorme è un Robinson cittadino, che gode dello straniamento» (Riccardo De Gennaro, L’Unità – 12 aprile 2009).


Andando avanti con la lettura il linguaggio diventa aspro, ma malleabile, ricco di similitudini, neologismi e non sense e poi ancora di proverbi e frasi fatte, tutti elementi che indicano il gusto di Perec per le possibilità ludiche della lingua.


Perec è uno scrittore dalla penna sottile, così sottile da insinuarsi nello spirito umano per esplorarlo e descriverlo al meglio. Un’altra caratteristica di questo libro è l’uso del “tu” al posto del pronome “io”, come uno sdoppiamento dove lo studente parla di sé a se stesso, alternando stati di esaltazione e momenti di aspra ironia, aumentando così l’ambiguità dei discorsi. L’uso della seconda persona singolare ci avvicina alla sensibilità di questo capolavoro e amplifica il significato di ogni parola, la lettura diventa personale e in questo modo si insinua un senso di dolorosa adesione in chi legge.


Ciò di cui parla l’anonimo studente parigino è qualcosa di tanto vicino a noi che, almeno una volta, tutti l’abbiamo provata. E se a te, gentile lettore di At.Tempto, è mai capitato di essere stato travolto da un senso di inerzia, annullamento, di non riuscire a seguire il passo, di sentirti manchevole di qualcosa, questo libro è anche per te.


Leggendo Perec, le maschere della certezza si dissolvono e cadono gli illustri perdigiorno. In un mondo che ci appare criptico e impenetrabile vogliamo metterci al riparo da tutto ciò che può ferirci, rifugiandoci nella meccanicità del quotidiano.


Questo ritiro, però, è il simbolo di una lotta interna, di un urlo disperato di chi non riesce a costruire la propria identità e non intravede la possibilità di realizzazione di sé non solo nella sfera personale, ma anche in quella sociale.


Spesso, distratti dall’affluenza delle “cose da fare”, dimentichiamo che la sofferenza è un’espressione necessaria dell’esistenza e che ha un ruolo paideutico: ci permette di fare esperienza della vita con consapevolezza. Fermarsi per un po’ è un atto di coraggio e di cura. Non c’è niente di più umano del ritirarsi nel proprio personale retrobottega nel quale potersi intrattenere con se stessi, imparare da se stessi, essere pronti per il mondo.


Cito l’epigrafe de Un uomo che dorme:

Non c’è bisogno che tu esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare nemmeno, aspetta soltanto. Non aspettar neppure, resta lì tutto solo e in assoluto silenzio. Il mondo verrà ad offrirsi a te perché lo smascheri, non può fare altrimenti, si voltolerà estasiato ai tuoi piedi. - Franz Kafka, Meditazioni sul peccato, la sofferenza, la speranza e la vera via


Dall’incontro di Perec con il documentarista Bernard Queysanne nasce l’omonimo film del romanzo. Il film in bianco e nero riproduce fedelmente il monologo e descrive minuziosamente l’esistenza, i pensieri e lo stato perdurante di indifferenza del protagonista. Viene messo in scena il testo che entra in simbiosi con le figure che si susseguono, si sente una voce narrante femminile, rappresentante la coscienza, che parla in seconda persona singolare, “tu”, ripete.

 
 
 

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