La deprivazione sensoriale è un’esperienza in cui uno dei nostri cinque sensi viene meno. Che sia la vista, l’olfatto o l’udito poco importa, perché il nostro corpo riuscirà sempre a cavarsela. Nel momento in cui uno dei cinque sensi “scompare”, tutti gli altri sensi si amplificano. Si vede di più, si sente di più, insomma si vive in una realtà amplificata in cui l’essere umano, per un lungo o breve periodo di tempo, riesce a percepire cose che prima non gli sarebbe stato possibile percepire.
Il problema fondamentale di cui si occupa in maniera magistrale il regista inglese Jonathan Glazer è proprio questo: cosa succede quando percepiamo talmente tanto da voler far finta di nulla?
Mentre Rudolf e la sua famiglia sistemano l’orto, fanno il bagno in piscina e innaffiano i fiori, in sottofondo si muove perennemente qualcosa. Che sia uno sparo, il pianto di un bambino o una guardia che urla, la quotidianità della famiglia Hoss non viene minimante scalfita dall’orrore che si sta compiendo dietro al muro che separa la loro casa dal campo di concentramento di Auschwitz. Eppure, per quanto possano fare finta di nulla, loro sentono tutto ciò che li circonda. Il suono, unito ad una colonna sonora graffiante e rumorosa, è l’elemento fondamentale del film su cui si basa l’intera anima dell’opera: la famiglia Hoss ascolta, ma non guarda.
La vista viene perennemente oscurata in tutto il film, che sia dall’inquadrare cosa succede effettivamente dentro al campo di concentramento al riprendere i prigionieri ebrei, sempre nominati ma quasi mai protagonisti sullo schermo.
Ciò di cui si illudono Rudolf e sua moglie Hedwig è che negando uno dei cinque sensi (in questo caso la vista) le cose siano più sopportabili, anzi, che le cose non esistano proprio.
Ma è qui che la banalità del male porta i germi della sua disfatta: per quanto tu voglia non vedere, puoi sempre sentire.
E prima o poi la realtà busserà alla tua porta, come le ombre di fuoco che si proiettano nella casa degli Hoss mentre i forni crematori vengono accesi.
La figlia più piccola di Rudolf ed Hedwig, ogni sera, rimane affacciata alla finestra ad ammirare il fuoco nero che esce dai camini. Ed ogni sera Rudolf, che davanti a quel massacro non fa altro che fumarsi un sigaro, prende sua figlia e la riporta a letto. Perché in fondo lui sa che ciò che sta facendo non può essere visto, ma solo sentito. D’altronde i suoni possono essere interpretati come meglio si vuole.
Le immagini vivide di uno scheletro umano che viene trascinato dalla corrente del lago sicuramente no. Rudolf ha paura di vedere perché sarebbe come mettere a nudo le atrocità che sta compiendo.
E allora come vive la famiglia Hoss? La deprivazione sensoriale umana che vivono è paragonabile alla vitalità di un’automa.
La regia di Glazer, che a

lterna campi stretti e campi larghi con molte inquadrature fisse, unita ad una fotografia fredda come il ghiaccio, ci dona il ritratto di un gruppo di individui che vive situazioni meccaniche, quasi schematiche: la chiusura delle luci prima di andare a dormire, le pulizie in casa, persino i giochi dei bambini, tutto viene standardizzato affinché si crei una routine al di fuori della realtà esterna, quasi come un’isola felice che si affaccia su un mare di morte.
La Ragione strumentale diventa l’unico modo di pensare nel sistema totalitario. La deportazione degli ebrei e la creazione di nuovi campi di concentramento diventano questioni di logistica e di ingegneria.
La morte o i soggetti direttamente interessati allo sterminio non vengono mai nominati, se non con termini generici come “carico”, creando un effetto de-umanizzante non solo ideologico, ma anche giustificativo. Anche qui, fin quando gli ebrei non vengono nominati o visti, essi non esistono. Ma i loro lamenti mortuari riecheggiano volenti o nolenti nelle menti di qualsiasi ufficiale delle SS.
Quando fra il 1961 ed il 1962 Adolf Eichmann venne processato a Gerusalemme, disse che stava solo “eseguendo gli ordini”. La consapevolezza del male perpetrato è però presente, tanto in Eichmann, quanto in Rudolf Hoss, il direttore del campo di sterminio di Auschwitz. Il bispensiero, teorizzato per la prima volta da George Orwell, ha comunque un lato consapevole che ha perfetta percezione che quello che si compie sia sbagliato; spesso ci si chiede come abbiano fatto i nazisti a convivere psicologicamente con l’uccidere milioni di persone innocenti. Molti dicono che semplicemente non gli importava niente. Glazer invece ci dice che non hanno fatto altro che guardare da un’altra parte.
Fare finta di non vedere.
Come facciamo, d’altronde, anche noi persone del XXI secolo davanti ad altri genocidi che avvengono in parti del mondo non occidentali, e probabilmente per questo meno importanti. Ma per quanto si possa reprimere la vista, ciò che uno sente dentro al suo spirito, per quanto malvagio, rimarrà sempre lì a bussare alla porta.
Fin quando un conato di vomito non lo porterà ad uscire fuori.
Fonti: “La banalità del male”, di Hannah Arendt - “1984”, di George Orwell - “Eclissi della Ragione”, di Max Horkheime
Comments