Uno degli scopi principi della ricerca scientifica è che essa sia pura; in questa autoreferenzialità vi è la sua virtù di compattezza e consistenza.
Al fossato galileiano, che solcava la separazione tra soggetto ed oggetto, la scienza moderna propone una esclusione completa di qualunque forma di antropomorfismo, in modo che “almeno nell’osservazione scientifica l’uomo non sia più misura di tutte le cose”.
Erwing Schrodinger, fisico della meccanica quantistica del novecento, pose al centro delle sue riflessioni il rapporto che intercorre tra l’evoluzione delle teorie e la casualità data dalla molteplicità dell’esperienza cosciente che partecipa e dirige, seppure in maniera frammentata, tale percorso.
La domanda ostica è: quanto è effettivamente fondata la convinzione di agire lungo un sentiero “limpido ed inevitabile”? Per lunghe epoche la società l’ha confrontata, ed osservando la storia più questa è stata discussa più la conoscenza è progredita.
Nello spazio di possibilità delle esperienze realizzabili, viene il dubbio di quanto minuta sia la frazione di quelle effettivamente compiute.
Quanto tale discrepanza complica l’assunto di stare sviluppando teorie riferite ad un oggetto inevitabile, invece che ad un interesse specifico dello stesso, che potrebbe farlo risultare diverso da ciò che eventualmente è?
Da un esempio, quasi tragico, è forse possibile comprendere meglio l’interrogativo e mettere in dubbio tale convinzione: lo studio della luce e l’esperienza di Francesco Grimaldi sulla diffrazione offre un’opportunità utile alla questione.
Fisico del 600’, egli già allora scoperse che l’ombra di un filo proiettata da una lontana sorgente luminosa puntiforme non ha la forma che ci si potrebbe aspettare, cioè d’un semplice nastro scuro; si vede invece questo nastro orlato da tre strisce colorate che si assottigliano verso l’esterno, ed anche l’interno dell’ombra è segnato da strisce colorate, in numero dispari.
Questa esperienza - come usava sottolineare Schrodinger - , che fu eseguita alquanto prima della teoria ondulatoria di Huygens e della teoria corpuscolare di Newton, fu la prima che dimostrò in modo netto come la luce non si propaga rigorosamente in linea retta; che la deviazione dipende strettamente dal colore, ossia la lunghezza d’onda.
Grimaldi “aveva sottomano il primo esempio di principio di indeterminazione”, formulato poi da Heisenberg nel 1927: la precisa limitazione laterale della luce per mezzo del filo produce una imprecisione della direzione con cui continua il suo cammino.
Ciò che vi è di essenzialmente rilevante è che ai suoi tempi Grimaldi e la sua osservazione vennero ignorati; l’esperimento fu considerato un fenomeno curioso ma senza importanza; per un secolo e mezzo - fino a Young e Fresnel - non si tentò neppure alcuna esperienza simile, nonostante la semplicità dei mezzi. Delle due teorie sulla luce che si affrontarono poco dopo, la teoria corpuscolare prevalse su quella ondulatoria, soffocando per lungo tempo l’interesse e la ricerca per l’altra, rischiando d’annullarla. Questo episodio sintetizza perfettamente il sospetto che la formulazione scientifica sia più vittima dell’ambiente che, come invocava il filosofo inglese Francesco Bacone, viceversa.
Nella sua esposizione epistemologica dell’ottica fisica Ernst Mach osservava, a proposito di quest’episodio storico, come esso mostri chiaramente “quanto poco lo sviluppo della scienza segua una via logica e sistematica”. Sia egli che Schrodinger furono fermamente critici di un altro fisico, Kirchhoff, la cui affermazione “nello studio della natura si deve fare solo una descrizione esatta di quanto si è osservato” venne discussa in maniera tagliente proprio da Schrodinger in un breve saggio del 1932: criticamente, egli affermava che “dal punto di vista epistemo-psicologico (questo enunciato) è certamente falso [...] è falso che le regolarità quantitative che determiniamo abbiano in sè un interesse minimo per noi”. Il motivo: vi è interesse in una data regolarità esclusivamente per le considerazioni che si ha intenzione di fare a riguardo, sia che queste costituiscano già una chiara teoria, sia che esse esistano appena come “intuizioni difficilmente esprimibili, ma ricche di speranze nelle menti di sperimentatori geniali” - come nel caso di Nernst, chimico dell’ottocento, riguardo alla capacità termica dei corpi.
Nei confronti interdisciplinari, di fatti, si ha spesso la prova lampante, attraverso le continue incomprensioni delle motivazioni celate dietro determinate ricerche, che ciò che si osserva della natura ha una vena profondamente soggettiva; dettata dal particolare interesse di un individuo o di un campo specifico, entrambi provenienti da una moltitudine di esperienze estremamente specifica ed irripetibile.
Come comprendere, però, la convergenza internazionale dei campi di studio, che sovente si palesa nelle scienze moderne?
I richiami storici, seppure suggestivi, non sono ancora del tutto convincenti per sostenere la prominente soggettività che definisce la ricerca scientifica.
Si può di fatti ragionevolmente contrapporre a questo una obiezione di tipo categoriale: la soggettività potrebbe riguardare il solo ordine di successione della scienza, e non il suo indirizzo fondante, puramente epistemologico; che, componendo ogni parte ad un dato momento di un quadro d’insieme che sembra esser legato da una armonia comune, riporta la sensazione di una realtà unica sottostante, a cui è inevitabile ricongiungersi pur partendo da prospettive diverse.
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