Andiamo cercando conferme e assoluzioni in ogni narrazione.
In ogni storia troviamo uno specchio che di noi restituisca un riflesso familiare, una linea dolce al posto del frastagliato profilo. Poche volte, alcune opere possono toglierci la terra sotto i piedi, sfilarla come si sfilano i tappeti e far deragliare questa ricerca, inclinare i binari e lasciare che questa precipiti. Ma tanto è forte questa tendenza consolatrice, che persino da ciò che ci fa orrore nasce ed emerge un piacere. Un piacere profondo, mascherato di disgusto, pudico e turbolento, che parla di noi.
Antica musa e doloroso cruccio di tanti artisti che l’hanno fotografata fedelmente, la violenza ha un potere rappresentativo travolgente. Raccontata con timidezza e con perverso desiderio, s’è indugiato sugli occhi annacquati di chi la subiva e su quelli di gomma di chi la infliggeva, e più diventava codice, e stilema e più si è riflettuto sull’impatto che questa stava generando negli spettatori. Agenti consapevoli o involucri infestati dagli spettri dell’assuefazione e dell’emulazione?
Siamo reticenti ad ammettere il torbido magnetismo di certe immagini intrise di violenza e a riconoscere in noi lo sguardo da avvoltoio che seguendo la legge delle tre ‘S’ regola l’attenzione umana e spesso rifiutiamo ogni tesi che vorrebbe tracciare una linea e circoscrivere in vasti insiemi il nostro ruolo attivo di fruitori e poi prosecutori.
Abbandonando i lidi troppo oscuri della catarsi, oppio per ogni critica, dove troviamo quella forza consolatrice?
Risiede là dove un’estetica riesce a spogliare la violenza di ogni peso ed essa esiste e infuria per sé stessa, in una dimensione di gratuità e pertanto di legittimazione. In ogni manichea divisione tra buoni e cattivi. Nei tratti che la descrivono come un’esperienza medianica, negli effetti travisanti, trascendenti. Negli indirizzi che la fanno abitare nei manicomi. Ovunque assuma una forma che oltrepassi il quotidiano e l’umano.
In uno spazio franco in cui perpetrarla ci sembra impossibile e quando è possibile c’è una ragione e una giustizia pronta a ristabilire l’ordine. Finché è altrove – e poco c’entra la paura di subirla quanto più la terrorizzante consapevolezza di poterla agire – e prende forme demoniache o asetticamente schematiche, caotiche e apocalittiche o prevedibili e incarcerabili, ci solleva da ogni rischio di partecipazione emotiva.
Altro la muove e come la muove la canalizza o la ritrae. È la dimensione istintiva, forte di una sfumatura bambina, giocosa a proteggerci.
Non spaventano le fiamme che divorano la terra e serpeggiano verso il cielo se non conosciamo la mano che ha appiccato l’incendio, il groviglio di pensieri che l’ha mossa, l’aspetto perduto dell’ormai scheletro annerito.
Quando la violenza è rappresentata come mezzo di affermazione e di conquista, la prassi d’una teoria, di un piano di vendetta o ritorsione, ci inquieta. Se è razionalmente concepita e mossa, organizzata, volta a un fine e la riconosciamo strumento, adulta, essa parlando d’un singolo uomo parla del nascondiglio che s’è ritagliata anche in noi.
Quasi è mai è un fatto di sola immagine. Né di mero realismo o verosimiglianza, o sola razionalità. Ci lasciamo rapire dal Joker di Heath Ledger ma ci turba quello di Joaquin Phoenix. Il primo non ha contesto, è apparente, evanescente; il secondo vive un mondo in cui a far da corollario alla sua follia c’è una violenza diffusa e capillare, che è più fastidiosa da vedere nelle vendette dei secondini, nei ragazzi che lo picchiano in metro, archetipi della violenza che sgorga da uno scarto di potere, piuttosto che nelle fantasie sanguinarie di Arthur Fleck.
Allo stesso modo in Ichi The Killer – capolavoro di Takashi Miike – subiamo visivamente gli abusi e lo squallore che regolano la vita della città e popolano la quotidianità, ma veniamo affascinati dal sadomasochismo spirituale di Kakihara, inteneriti dalla furia cieca, disumana nel senso di trascendente l’umano – nei gesti quanto nei presupposti – di Ichi, è più fastidio, ci dà guardare i bambini picchiarsi giocando alla strada e immaginare il poi.
Impatta su di noi quel che spalanca un vuoto immaginativo. Quel che ci costringe ad attingere al nostro vissuto, a proiettarlo e a farlo correre nel reale.
È il motivo per il quale non sempre le rappresentazioni iperboliche o parodiche annacquano l’immagine fino a renderla omeopatica: in Doom Generation assistiamo a membra che volano e teste mozzate ma mai, finché non subentra l’elemento venale – e perciò psicologico – e non irrompe il contesto – un’America frammentata e disillusa, anche politicamente – quella violenza ci pare insostenibile. È stato necessario ristabilire un contatto contestuale, senza aver ridimensionato l’equilibrio tra realismo e fantastico, perché certe immagini impattassero più profondamente; è bastato privare le immagini della loro dimensione extra-storica.
Altro esempio è la rappresentazione che si fa del post-apocalittico. La violenza è dialettica ma è più affilata quando riacquista i tratti quotidiani del tempo perduto.
The Last Of Us è potente e sempre eloquente nella violenza che mette in scena. Ma al desiderio di annichilimento del tuo nemico – indiscutibile fintanto che accetti la sua follia distruttrice, prodotto di un mondo preda di logiche deformi e infette, ormai molto poco umano e dedito solo alla perpetrazione di quel dolore diffuso come miasmi fungini – a quel desiderio si sostituisce lentamente il terrore di un dramma collettivo, amplificato dai colori del vecchio mondo. Sono le casacche militari e gli abiti monacali a urtare, lo scontro per il potere e le vendette private.
La violenza emerge nella sua complessità reale, persino quando ci pare un grumo oscuro, indistricabile, che, come resina cola da una ferita nascosta tra centinaia di altre incisioni.
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