top of page

La Rosa Purpurea del Cairo

Immagine del redattore: tentativo2lstentativo2ls

America degli anni 30’: povertà e speranza.


La regia di Woody Allen è abilmente camaleontica tanto da trasporre le sensazioni di un’epoca simbolica della storia americana solo facendo osservare i piccoli scambi di parole tra Cecilia, Mia Farrow, e gli uomini che fino a quel punto circondano la sua vita, il marito Monk ed il severo barista che rimprovera la sua ingenua inettitudine manifestata al lavoro. Il divario tra la sua intelligenza sensibile e l’ignoranza del coniuge rende bene l’ingiustizia che le donne, specialmente in quell’epoca scarna di una compiuta coscienza di genere, sopportavano amaramente.


Il film è La Rosa Purpurea del Cairo, 1985, e tratta della storia di una donna e del suo film preferito, proprio omonimo al sopracitato.

 

Da questa introduzione, la cui venatura di critica sociale scorre nell’interezza dell’opera, si è subito trasportati nella passione della protagonista per il cinema, come finzione estetica ed etica in cui rilassare le delusioni della vita concreta ed abbandonarsi alla sensazione di perfezione che a volte si prova di fronte un’opera così riuscita da rasentare la piena soddisfazione dei propri canoni.


D’un tratto, durante l’ennesima presenza di Cecilia nella sala, il giovane esploratore Tom Baxter, personaggio animato nella proiezione dalla ricerca d’una tomba leggendaria avvolta da rose, notandola per l’ennesima volta assistere meravigliata sceglie di compiere un’autentica rottura della quarta parete: egli prima si rivolge parlandole, poi si scolla dalla superficie proiettata e materializzandosi raggiunge la donna, inerte dallo stupore d’aver visto un frammento di finzione divenire reale.


Il rapporto tra i due si riempie subito di passione, interrogando l’osservatore della unicità della relazione: Tom è lì di fronte a lei, eppure perfino il suo nome proviene da una semplice rappresentazione;  si comporta come se non fosse libero, relegato alle sole funzioni che il suo personaggio - quale egli è - permette d’avere. L’incredulità di Cecilia, sfumata a tratti dal sentimento vivido che sente provare nei confronti del prototipo elegante di uomo che ha sempre desiderato e che si trova di fronte, attanaglia il dubbio sulla natura intrinseca di Tom, della sua collocazione in ciò che lei reputa realtà.


Viene inevitabilmente stimolata una questione profonda che da tempo ha interrogato la concezione del mondo della civiltà occidentale: ontologia. Cosa esiste?


Se il Re Lear di Shakespeare si palesa solo nella sua opera, che tipo di esistenza ha tale oggetto del pensiero di una mente nel cosmo? Varrà lo stesso per Tom?

Definiamo esistenza, nei termini dell’empiriocriticismo d’inizio ventesimo secolo integrati alla definizione di informazione di Gregory Bateson, ed in mancanza di una concezione rigida di materia date le particolari  intuizioni della fisica contemporanea, come la proprietà di ciò che contribuisce ad almeno un cambiamento nella realtà, intendendo con realtà il continuum dell'esperienza.

 

Tom è un nome scritto in una sceneggiatura, ma quando la figura che lo rappresenta si palesa fisica agli occhi di Cecilia egli più che oggetto proposizionale diviene un concetto: Tom è un concetto con il quale Cecilia interagisce direttamente: egli ora modifica nettamente il modo in cui lei sceglie cosa fare, cosa pensare. Ma è il solo fatto di essersi trasmutato a farlo pienamente esistere?

Vi è un'ambiguità di fondo: con la parola Tom, Cecilia si riferisce alla cosa che prima vedeva e che ora tange oppure alla persona, residente in quella cosa,  da cui sente provenire amore? 


Due sono le riflessioni che vengono subito a galla: la provenienza fittizia dell'esploratore condanna la sua perfetta manifestazione ad essere un guscio vuoto di essenza? L’esistenza di Tom è da relegare, nonostante la sua trasformazione, nella mente della donna siccome con il nome Tom - sia nel cinema che al di fuori - ella indica un concetto cognitivo che arbitrariamente assegna ad una cosa che di intrinseco non ha nulla?

 

Il film implicitamente ci invita a sbrogliare il dilemma, tra le ripetute interrogazioni di Cecilia e la comparsa di Gil Shepherd, l’attore che ha interpretato lo stesso esploratore Tom Baxter nella pellicola da cui tale simulacro si è strappato via.

Tentata dall'intraprendenza del primo e l’eleganza del secondo, la donna finisce per preferire Gil reputandolo più consistente, più libero: più reale.

 

Tom può esser visto come il fiume della cui essenza si interrogava Eraclito: la sua identità potrebbe riferirsi al corpo movente oppure al concetto. Vi è una rilettura utile, riguardo a ciò, su Aristotele: egli, riflettendo sul termine casa, concludeva come non fosse l’edificio di mattoni a renderla tale ma l'intenzione e la funzione del progettatore e dell’inquilino. Il riferimento delle parole casa e Tom, dunque, non sarebbe in direzione rispettivamente dell’edificio e del corpo, ma della rappresentazione mentale che chi interagisce coi termini delinea.

La linguistica analitica chomskiana ha proposto una teoria affine a quella aristotelica, contraria a quella della teoria della corrispondenza contemporanea, e che in questa riflessione può fare le veci di Tom l’esploratore: ogni termine, atomo di un enunciato, è da considerarsi come referente non tanto del mondo esterno ma del mondo interno della cognizione. Tom è tale in quanto Cecilia in lui osserva le qualità intese dal personaggio di cui egli è forma: il tessuto della sua esistenza è rammagliato dalle relazioni mentali che lo condividono. Si delineano in tal senso prospettive integranti il fisicalismo con l’internalismo tipico dell’idealismo mentale.

Il giudizio della donna, quando reputava più reale Gil, era forse più inconsistente di quanto ella reputasse Tom.

 

Con quel nome Cecilia indicava, senza esserne consapevole, qualcosa di cui era partecipe, siccome era specificamente lei ad osservarne la sua data natura e che in tal modo, aristotelicamente, la realizzava; assieme a Tom persona però Cecilia doveva fare i conti anche con ciò che lo aveva originato nella pellicola.


Egli infatti, smuovendo questioni essenziali sul libero arbitrio, aveva la libertà limitata dalla scrittura della sceneggiatura; come il progettatore della casa concorreva nella sua esistenza, ugualmente lo sceneggiatore del film marcava lo spazio del suo essere. Per Tom il suo carattere gli era inevitabile, suggerendo una certa analogia con la peculiare teoría del determinismo biologico: riportato in auge da Sapolsky ai nostri giorni, discusso nello scorso secolo da Gould, Monod e Dawkins, tale visione assegna ai comportamenti umani valore di semplice manifestazione circoscritta del genotipo; in parole povere, come la morfologia di un corpo è dovuta al gene, al medesimo modo le sue azioni sono in buona dose da ricondurre al codice risiedente nelle molecole del suo sangue.

In forza di una particolare lettura del gradualismo evolutivo filetico, che osserva l’intero processo evolutivo come un estremamente lento e graduale divenire, questa concezione interpreta il libero arbitrio umano come una variabile profondamente trattenuta dalle circostanze spazio-temporali ed appartenenze biologiche.

Di fronte al rifiuto di Cecilia, Tom si dimostra per certi versi virtuoso, ma per altri impotente di una eventuale rabbia che non gli appartiene: silenziosamente, rientra nella pellicola da cui era provenuto. è forse proprio per la suddetta mancanza di libertà che Cecilia sceglie di abbandonarlo.

 

Il film procede, e dopo la scottante delusione arrecatale da Gil che l’ha abbandonata a sé stessa la mattina di un appuntamento cruciale, dimostrando di averla utilizzata solamente per fare rientrare Tom nella pellicola così da essere protetto da rischi reputazionali nel caso in cui il suo doppio avesse scelto di fare del male, la donna finisce di nuovo nel grande salone del cinema pronta per assistere sola, ancora una volta, a La Rosa Purpurea del Cairo; similmente a quando, precedentemente, tornava dal marito dopo averci litigato.

 

Accantonando il determinismo comportamentale ed imboccando la sua variante cosmologica leibniziana, una riflessione spunta alla mente, e cioè che l’avventura di Cecilia al cinema possa essere la parabola del destino suo già definito: alla delusione della quotidianità pratica, la natura della sua stessa esistenza riverbera solo quando è assuefatta dalla corrispondenza di un ideale; che prima non le era dato avere, e che poi, vedendolo degradarsi a corpo dinnanzi a lei, ha preferito respingere. Che fosse questo lo scopo stesso soggiacente l’intero episodio, ossia di farla venire a patti, seppure dolorosamente, con la possibilità di meritare qualcosa di ancora migliore?


Se così fosse, come per la casa il progettatore, per la pellicola lo sceneggiatore, a chi o cosa era preposto il controllo sul decorso dell’esperienza di Cecilia? Ovviamente, Woody Allen.

 

 
 
 

Post recenti

Mostra tutti

La varietà nell’apparire

“Il vero fascino della moda sta nel contrasto fra la sua diffusione ampia e omnicomprensiva e la sua rapida, fondamentale caducità”. ...

Commentaires


bottom of page