
Saigon, 30 gennaio 1968.
L’atmosfera in città è tesissima. I locali sono convinti che si sta per scatenare qualcosa di grosso. È la notte del Capodanno vietnamita, il Têt, e come ogni anno anche i combattimenti in Indocina cessano per i festeggiamenti. Dal 1964 le truppe americane sono impantanate in Vietnam, in una guerra dalla quale la Casa Bianca non sembra trovare una via d’uscita. Da qualche mese gli alti comandi americani, tuttavia, sono piuttosto ottimisti. Nel novembre 1967, il generale Westmoreland, a capo del Comando per l’Assistenza militare in Vietnam, aveva dichiarato come: «le speranze del nemico siano ormai alla fine». La guerra sembra avviarsi alla conclusione.
Improvvisamente, durante la notte, le truppe del Fronte di Liberazione Nazionale, sotto la guida del generale Giàp, scatenano quella che passerà alla storia come l’offensiva del Têt. Tutti gli avamposti americani e quasi la totalità delle città del Vietnam meridionale sono sotto attacco, compresa la capitale. Si tratta del punto di svolta nella guerra. Mai le truppe statunitensi avevano subito un attacco di una simile portata da parte dei Viet Cong.
Il 1° febbraio, mentre la battaglia divampa a Saigon, un reporter americano, Eddie Adams, si aggira per le strade della città nel tentativo di immortalare quello che sembra essere l’inizio della disfatta americana. Adams è un fotoreporter “veterano” per l’Associated Press, con una lunga esperienza sul campo. Capisce subito di dover cogliere il momento. Assieme ad un collega, un cineoperatore della Nbc, nel pieno del caos degli scontri, si imbatte in un gruppo di poliziotti sudvietnamiti che hanno appena catturato un giovane guerrigliero, Nguyễn Văn Lém. Il prigioniero viene condannato a morte. A compiere l’esecuzione è Nguyễn Ngọc Loan, comandante della polizia nazionale del Vietnam del Sud. Il poliziotto carica la pistola. Adams prepara la macchina fotografica. Lo “sparo” avviene in contemporanea.
Esecuzione a Saigon, che farà vincere a Adams un Pulitzer nel 1969, è la fotografia che, simbolicamente, segna l’avvio della fase conclusiva nel conflitto in Vietnam. A partire dalla sua pubblicazione, un’ondata di indignazione e protesta invade le università e le piazze di Stati Uniti ed Europa, cavalcando l’onda del ’68.
La fotografia, capace di racchiudere in sé tutta la brutalità e la futilità del massacro in atto, scuote la coscienza collettiva. Adams ci mette faccia a faccia con la morte, senza filtri. Nella prima guerra raccontata massicciamente dai mass media, sarà l’opinione pubblica a decretare la sconfitta americana.
Come sosterrà Adams, anni dopo, sulle pagine del Time: «il generale uccise il Viet Cong; io uccisi il generale con la mia macchina fotografica». L’offensiva del Têt, in realtà un fallimento militare, costringe gli Stati Uniti, sconvolti dalla resistenza vietnamita, ad avviare un lungo processo di disimpegno, che si chiuderà con il ritiro voluto da Nixon nel 1973.
Il rapporto tra la comunicazione è la guerra ha senza dubbio segnato la contemporaneità. L’opinione pubblica è diventata la vera arma a disposizione, soprattutto di eserciti militarmente inferiore, per sconfiggere strategicamente il proprio avversario.
La comunicazione social e i video dal fronte sono diventati parte integrante delle strategie comunicative dei paesi coinvolti nei gravi conflitti scoppiati negli ultimi anni. Mai sino a questo momento abbiamo avuto un contatto così diretto con la trincea e con il soldato in sé.
Ogni militare, o civile, è diventato un reporter, in grado di raccontare la brutalità quotidiana degli scontri, delle rappresaglie e dei bombardamenti. Tuttavia, questa sovrabbondanza di informazioni sembra aver normalizzato il nostro rapporto con la guerra, trasformandola in una realtà quotidiana, un’appassionante abitudine.
I video recentemente pubblicati, dallo stesso esercito israeliano, per la strage di Gaza del 29 febbraio, sono stati certamente un detonatore per un’ondata internazionale di sdegno, progressivamente però riassorbita dopo le proteste di fine Febbraio.
I social e la stampa bombardano l’opinione pubblica di immagini sugli eventi bellici in atto, ma in tutte queste il rapporto con la morte e con la violenza non è mai diretto, ma sempre mediato da droni, visori, binocoli. Così l’immagine perde la propria forza dirompente e la guerra ci spaventa meno, diventa routine. Il reportage dal fronte sembra aver perso la sua funzione di denuncia, mettendo in secondo piano la sua componente “artistica”, per trasformarsi in un supporto visivo del tutto sterile, basti pensare alle immagini che ciclicamente vengono riproposte sui telegiornali nazionali.
La fotografia di Adams porta lo spettatore tra le strade di Saigon, di fronte alla macabra esecuzione. Siamo partecipi del sacrificio del guerrigliero. Sentiamo la rabbia che la fotografia scatena. Rabbia e indignazione, questo è ciò che ha alimentato il movimento pacifista negli anni del Vietnam. Un aspetto che, nell’epoca della sovrabbondanza dell’informazione visuale, sembra essere venuto meno, in favore di una cieca oggettività.
Comments