top of page

La diplomazia coercitiva tra riflessioni e debolezze: i casi del disarmo nucleare in Libia e in Corea del Nord

Immagine del redattore: tentativo2lstentativo2ls


La diplomazia coercitiva è una delle più comuni strategie diplomatiche a cui uno Stato o una coalizione possono ricorrere per cercare di persuadere un avversario a porre fine ad una determinata azione o a invertirne l’andamento. Questa strategia si caratterizza la minaccia dell’uso della forza militare come elemento per rafforzare la richiesta fatta e per dimostrare risolutezza nel perseguimento degli obiettivi.


Per rendere efficace questa strategia è fondamentale che lo Stato target comprenda i termini della richiesta; perciò, una chiara comunicazione può essere considerata il metodo più logico per ottenere un adeguato livello di trasparenza. Tuttavia, ciò non è sempre necessario: in particolare, una richiesta esplicita può portare lo Stato target a prendere in considerazione precedenti in cui lo stesso Stato ha presentato la medesima richiesta ad un altro, e trarre da tale esempio considerazioni sul valutare se la migliore opzione sia l'ottemperanza o la resistenza. In tale situazione, perciò, una domanda chiara può essere dannosa alla strategia stessa e gli esempi passati giocherebbero un ruolo chiave.


Generalmente, in una strategia di diplomazia coercitiva possono essere identificati tre elementi principali: il primo è la richiesta, la quale corrisponde con l’obiettivo che lo Stato coercitore sta perseguendo. Uno Stato può chiedere al suo avversario di prevenire il compimento di un’azione o di revocarne gli effetti. Il secondo e il terzo elemento sono le due componenti dell’approccio del bastone e della carota che stabilisce che insieme al bastone, ossia la minaccia di ripercussione in caso di inottemperanza, lo Stato coercitore debba promettere anche la carota, e cioè deve assicurare che lo Stato target sarà premiato se sceglierà di collaborare.


Inoltre, nella strategia del coercitore vi deve essere proporzionalità tra l’obiettivo perseguito e i mezzi utilizzati; più precisamente, se l’obiettivo è il regime change nello Stato target la strategia ha scarse possibilità di successo, proprio a causa della mancanza di proporzionalità. Il secondo criterio è la reciprocità, per cui il target deve comprendere che solo cedendo si possano ottenere le ricompense promesse. Infine, la coercizione deve essere credibile, una considerazione che riguarda sia la minaccia utilizzata sia il compenso promesso, in quanto lo Stato target deve credere che esse siano le conseguenze inevitabilmente derivanti dalla propria decisione di collaborare o meno.


Quando elabora la sua controstrategia, lo Stato target valuta se la decisione di ottemperare sia necessaria ai fini della sopravvivenza del suo regime e del mantenimento del supporto politico interno o se l’inosservanza sia più funzionale a servire questi interessi. Pertanto, l’ennesimo fattore è il ruolo delle élite domestiche, le quali possono agire o in favore dell’inottemperanza quando i loro interessi sarebbero altrimenti minacciati o fare pressione per il rispetto delle richieste del coercitore nel caso contrario.


Un caso di successo di diplomazia coercitiva è stato quello degli Stati Uniti nei confronti della Libia che il 19 dicembre 2003 portò lo Stato Nordafricano a prendere la decisione di rinunciare alle sue armi di distruzione di massa. La Libia ottemperò alle richieste e gli Stati Uniti, così che non dovettero ricorrere all’effettivo uso della forza al fine di convincere Gheddafi a fermare il suo programma nucleare.


Nonostante gli Stati Uniti non avessero mai esplicitamente e chiaramente comunicato le loro richieste alla Libia, e nemmeno avessero espresso cosa avrebbe costituito il bastone in caso di inottemperanza e la carota in caso di osservanza, i due Stati riuscirono a trovare un accordo.


In questo caso, la mancanza di una comunicazione diretta fu compensata dall’esistenza di precedenti utilizzi di tale strategia che la Libia avrebbe potuto considerare nella valutazione della sua posizione e della sua controstrategia: la reazione degli Stati Uniti all’attacco terroristico dell’11 settembre, la guerra in Iraq del 2003 e la conseguente cattura di Saddam Hussein dimostravano la risolutezza dell’amministrazione di George W. Bush nell’intraprendere campagne militari se ciò fosse stato necessario ai fini del disarmo nucleare in quei regimi da essa considerati “canaglia”. Questo costituì una minaccia velata verso Gheddafi, il quale all’epoca stava cercando di costruire un arsenale nucleare ed era logico presumere che in quel contesto, prima o poi, gli Stati Uniti avrebbero cominciato a fare pressione. Del resto, la Libia era stata inclusa in quello che l’allora Segretario di Stato John Bolton aveva definito “asse del male”, delineando, perciò, un’esplicita similarità con l’Iraq.


Verosimilmente, la decisione di Gheddafi fu frutto del fatto che egli non voleva essere “il prossimo Saddam”, essendo preoccupato non solo per il futuro del suo regime, ma anche per la propria sopravvivenza. Inoltre, altri fattori promossero questa decisione: innanzitutto, la Libia era al tempo soggetta a sanzioni economiche multilaterali dall’impatto negativo sull’economia libica e sugli interessi delle élite domestiche, le quali fecero pressione su Gheddafi per un policy change. Gheddafi potrebbe aver assunto che il suo programma di armi di distruzione di massa stesse al contempo impedendo la normalizzazione dei rapporti con l’Occidente guidato dagli Stati Uniti e stavano facendo della Libia il target di una risoluta strategia di diplomazia coercitiva volta al regime change, incrementando così i costi nell’inottemperanza. D’altro canto, il fatto che il programma di armi di distruzione di massa libiche non fosse completo, e non lo sarebbe stato nel breve termine, abbassò i costi dell’adeguamento alle richieste.


L’amministrazione di Donald Trump ha fatto in diverse occasioni riferimento al “modello libico” come la strategia più adeguata da utilizzare per spingere anche la Corea del Nord alla denuclearizzazione.


Alla Corea del Nord è stato richiesto a lungo di arrestare il suo programma di armamenti nucleari, ma la richiesta si è fatta più pressante quando nel luglio 2017 ha testato il suo primo missile balistico intercontinentale, in grado, secondo le parole dello Stato orientale di colpire l’entroterra statunitense. Lo scambio di retoriche aggressive fra l’allora Presidente americano Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong Un che ne seguì incrementò le tensioni tra le due parti e fece accrescere nel mondo la paura di un’escalation militare.


Nel 2018, favorito dalla mediazione del presidente della Corea del Sud Moon Jae-in, Kim Jong Un e Donald Trump accettarono di incontrarsi. Il summit ebbe luogo il 12 giugno 2018 a Singapore e rappresentò il primo vero incontro tra un presidente americano e un leader nordcoreano. Ciò nonostante, l’incontro fu preceduto da mesi di tensioni e minacce di cancellazione da parte di entrambi i leader; è interessante considerare gli eventi e lo scambio di dichiarazioni per comprendere il ruolo giocato dal “modello libico”. Nel maggio 2018, sia il Presidente Trump che il Vicepresidente Mike Pence menzionarono la denuclearizzazione della Libia come un modello da seguire per convincere Pyongyang a trovare un accordo; nonostante ciò, il paragone fra le due strategie, invece che favorire le negoziazioni, spinsero Kim Jong Un a minacciare il suo ritiro dal summit. La decisione maturò dalla considerazione che la scelta di collaborare non persuase un'alleanza tra Stati Uniti e alcuni Stati europei dall’avviare nel 2011 un intervento militare contro Gheddafi che diede ai ribelli libici l'opportunità di ucciderlo.


Nel caso della Corea del Nord la richiesta della strategia di diplomazia coercitiva fu chiaramente comunicata: gli Stati Uniti chiesero alla Corea del Nord di impegnarsi in un completo disarmo e di rinunciare alle armi nucleari già assemblate. Il fatto che questo obiettivo non sia stato ancora raggiunto dovrebbe incoraggiare a considerare attentamente le affermazioni fatte dalla Korean Central News Agency nel gennaio 2016 secondo cui “Il regime di Saddam Hussein in Iraq e il regime di Gheddafi in Libia non poterono sfuggire al destino di essere distrutti dopo essere stati privati dei loro fondamenti per lo sviluppo nucleare e aver concordato di rinunciare ai loro progetti nucleari”.


Ad opinione di Kim Jong Un, negoziare un accordo non solo non avrebbe assicurato la conservazione del suo regime, ma avrebbe reso la Corea del Nord un target persino più vulnerabile. Perciò, la strategia di diplomazia coercitiva degli Stati Uniti non avrebbe comportato costi di collaborazione elevati e benefici non credibili.


In conclusione, l’esistenza di esempi passati può compensare l’assenza di richieste esplicite e trasparenti e in ultima istanza rafforzare la strategia, come nel caso della Libia, oppure può essere dannosa quando i termini della strategia sono ovvi, come nel caso della Corea del Nord.


Nelle Relazioni Internazionali la trasparenza, anche in contesti critici come quelli della diplomazia e della minaccia militare, costituisce l’ennesimo esempio di quanto siano complesse le dinamiche interstatali e quanto una richiesta esplicita, dichiarata, talvolta, può creare ancora più scompigli di una trattazione a porte chiuse.


Come ci si può affidare alla trasparenza, alla comunicazione diretta quando anch’esse celano, dentro di sé, aspetti inconsci della natura umana che persegue l’interesse, in questo caso nazionale e di politica di potenza? A questo forse una risposta non ci sarà mai. Ad ogni modo, ogni caso è a sé stante, una strategia efficace dovrà tenerne conto, scongiurando quei modelli generici antagonisti dell’obiettività



Fonti:

Ganguly, S. and Kraig, M. R. (2005) The 2001-2002 Indo-Pakistani Crisis: Exposing the Limits of Coercive Diplomacy. Security Studies, 14:2, 290-324


George, A. L. (1991) Forceful persuasion: Coercive diplomacy as an alternative to war. Washington, D.C. : United States Institute of Peace Press


Jentleson, B. W. (2006) Coercive Diplomacy: Scope and Limits in the Contemporary Word. Policy Analysis Brief, December 2006


Jentleson, B. W. and Whytock, C. A. (2005/2006) Who "Won" Libya?: The Force-Diplomacy Debate and Its Implications for Theory and Policy. International Security, 30:3

Post recenti

Mostra tutti

La varietà nell’apparire

“Il vero fascino della moda sta nel contrasto fra la sua diffusione ampia e omnicomprensiva e la sua rapida, fondamentale caducità”. ...

Comments


bottom of page