Nell’astrologia, la Luna rappresenta uno dei pianeti più importanti della carta natale. Insieme al Sole, considerato il centro principale dell’individuo, la Luna rappresenta la sua parte più inconscia, emotiva, per non dire nascosta.
Legata indissolubilmente all’elemento acquatico, archetipo di rinascita ed irrazionalità prorompente, la Luna simbolizza i nostri desideri più sopiti e la nostra parte più “oscura”, nascosta da una repressione o non accettazione della nostra natura: non a caso è l’elemento più significativo del folklore licantropo.
Come per la figura del vampiro anche il lupo mannaro ha una lunga storia di trasposizioni cinematografiche.
A differenza del vampiro però, che fin dalla sua nascita ha sempre avuto un forte approfondimento filosofico, politico e psicologico, molti dei film sulla figura dell’uomo lupo risultano fini a se stessi, mostrando questa figura come un semplice mostro sanguinario, spesso protagonista di film di serie B o serie Z. In questo excursus verranno analizzate quattro trasposizioni che hanno fatto la differenza. Licantropia e malvagità umana:“The Wolf Man”, di George Waggner (1941).
Nel 1935, durante il suo periodo d’oro, l’Universal Pictures produsse il suo primo film sui lupi mannari dal titolo “Werewolf of London”, interpretato da Henry Hull. Il film si rivelò un flop e col passare degli anni lo studio accantonò l’idea di un nuovo film sui licantropi. Qualche anno dopo, in piena Seconda guerra mondiale, arrivò negli USA un giovane scrittore tedesco di origini ebree, Kurt Siodmak, scappato dalla persecuzione del regime nazista. Siodmak, ispirato dalla sua esperienza personale, propose all’Universal di ritornare sulla figura dell’uomo lupo scrivendo una sceneggiatura innovativa.
Interpretato dal leggendario Lon Chaney Jr., “The Wolf Man” è uno dei film capisaldi dell’universo cinematografico mostruoso dell’Universal, imponendosi come canone e come fonte di ispirazione principale per tutti i film a venire. La trama è ambientata in Galles, dove il protagonista Larry Talbot ritorna nella casa di famiglia a causa della scomparsa del fratello. Si innamora di una ragazza del posto ma una sera verrà assalito da un enorme lupo, che poi si rivelerà essere un licantropo.
Da qui partirà la sua furia omicida. Ciò che rende originale e degna di nota la trasposizione di Waggner e Siodmak è il forte sottotesto politico: le vittime di Talbot sono segnate dal “marchio dell’uomo lupo” che in questo caso è una stella a cinque punte, riprendendo la famosa Stella di David della religione ebraica, simbolo che come sappiamo veniva usato nella Germania nazista per identificare gli ebrei.
L’uomo lupo è un nazista allora? Non proprio. Durante l’incontro con Maleva, una zingara in grado di predire il futuro, ella recita una filastrocca in cui è rinchiuso il messaggio del film: <>. Gli esseri umani possono diventare tutti malvagi. Possiamo macchiarci di crimini immensi, come quelli del nazismo, e diventare dei mostri impossessati da una bestialità ripugnante ma tremendamente banale.
Sta a noi scegliere di non farci guidare dal male, consapevoli però che possiamo esserne complici.
Licantropia ed emarginazione sociale:
“The Howling”, di Joe Dante (1981) Gli anni ’80 sono un periodo florido per i film sui licantropi. A livello di distribuzione cinematografica, il 1981 si apre con ben tre film sul tema ovvero “The Howling” (di cui ne parleremo a breve), “Un lupo mannaro americano a Londra” e “Wolfen”; nel 1985 uscirà anche un altro film di grande successo ovvero “Teen Wolf”, che lancerà la carriera cinematografica di Michael J. Fox.
A livello culturale, gli anni ’80 alzano l’asticella qualitativa sulle tematiche da trattare legate alla licantropia. Fino a quel momento, ad esclusione del primo uomo lupo del ’41, i film sui lupi mannari erano prodotti trash, con storie trite e ritrite prive di una profondità metaforica o di un messaggio di fondo. Nel 1981 la tendenza cambia, veicolando nella figura del licantropo problematiche sociali, politiche ed esistenziali. Una menzione su tutti è “Wolfen”, in cui per la prima volta la licantropia si affianca ad un’ottica anticapitalista ed ambientalista, denunciando lo sfruttamento dei territori appartenenti alla comunità nativo-americana da parte delle grandi multinazionali.
Ma il fondatore di questo nuovo filone è sicuramente “The Howling” del maestro Joe Dante. Tratto dal romanzo omonimo del 1977 di Gary Brandner, il film mostra la vita travagliata di Karen White, giornalista che viene braccata da un serial killer. Dopo la morte di quest’ultimo, a cui lei ha direttamente partecipato, Karen ha un crollo nervoso e si trasferisce insieme al marito in una clinica di montagna chiamata “Colonia”, gestita da uno stravagante psicanalista. Dopo alcuni incontri grotteschi, si scoprirà che la clinica non è altro che una comunità per lupi mannari. “The Howling” trae la sua forza non solo dalle atmosfere horror e dalla composizione delle immagini, ma anche della sua rilettura della figura del licantropo: una figura clinica, medicalizzata e considerata un “outcast” della società. Non a caso la comunità terapeutica raccoglie casi psichiatrici di vario tipo; il lupo mannaro è colui che viene allontanato dalla società in quanto non rispettoso della norma pre-stabilità, costretto a rinchiudersi con i suoi simili. Dante compie un’operazione che verosimilmente riesce quasi ad accomunare la figura del lupo mannaro a quella del vampiro, trasformando anche questo mostro in un grande Altro con cui le persone hanno terrore a confrontarsi.
Licantropia e non-accettazione:
“Un lupo mannaro americano a Londra”, di John Landis (1981), ricordato come una stupenda commedia grottesca, vincitore del premio Oscar come miglior trucco, riserba qualcosa in più delle battute dark o della storia d’amore in sottofondo.
David e Jack, durante una vacanza in Inghilterra, vengono assaliti da una gigantesca bestia che poi si rivelerà essere un lupo mannaro. Jack morirà, mentre David sopravvivrà, e pian piano avverrà la scoperta della sua trasformazione in lupo mannaro. Per tutto il film verrà accompagnato dalle figure dei fantasmi che lui ha ucciso, incluso quello di Jack, che gli consiglieranno più volte di uccidersi per poter spezzare la maledizione e farli andare nell’aldilà.
Nonostante il film alterni momenti drammatici a momenti più comici, il filo conduttore dell’opera di Landis è la non-accettazione. Nonostante venga avvertito più volte della sua vera natura, David fa fatica ad accettare questo suo nuovo lato. Persino dopo che compierà i suoi primi omicidi (causa perdita di memoria) negherà di essere il responsabile, fin quando non leggerà la notizia sui giornali. Accettare tutto questo significa rinunciare alla propria vita, cosa che David non vuole assolutamente fare, ma ciò provoca solo altra morte e distruzione.
Con una grande metafora fatta di amore e sangue, Landis ci invita a non negare quella parte di noi che consideriamo “cattiva”, ma a farci i conti nonostante il dover prendere delle decisioni difficili. Licantropia e libertà: “Wolf”, di Mike Nichols (1994) Gli anni ’90 segnano un nuovo crollo della figura del lupo mannaro. Inizia a nascere una tendenza “action” che influenzerà successivamente i film del 2000 (come “Underworld” e “Twilight”) e che sacrificherà i temi trattati negli anni ’80.
Fra i pochissimi film che escono in quelli anni sulla figura del licantropo uno riesce a brillare fra tutti, non solo per il cast che vede protagonisti Jack Nicholson nei panni dell’uomo lupo insieme a Michelle Pfeiffer e Christopher Plummer, ma anche per un ritorno alla profondità di questa figura mostruosa. Tratto dal romanzo “Wolf” scritto da Jim Harrison, che è anche sceneggiatore del film, il film diretto da Nichols parla di Will, un caporedattore di un grande giornale che vive una vita di vessazioni e repressioni: è costretto a trasferirsi in Europa per un lavoro demansionato ed è innamorato di Laura, figlia del suo capo, nonostante lui sia sposato. Una sera investe un lupo nero per strada e, cercando di aiutarlo, viene morso alla mano. Consultando un’esoterista, scopre che presto si trasformerà in un lupo mannaro. Da quel momento però la sua vita cambia del tutto. Decide di licenziarsi dal lavoro per intraprendere l’apertura di una casa editrice, lascia la moglie e inizia una relazione con Laura. Le cose però andranno sempre peggio.
“Wolf” è un inno alla ribellione rappresentato dalla voglia di libertà di Nicholson: la trasformazione in licantropo riesuma in lui un sentimento di libertà sopito, portandolo a compiere scelte che prima non avrebbe fatto. L’amore per Laura lo porta ad accettarsi per quello che è, sentendosi riconosciuto ed accettato. Il finale amaro, in cui lui scappa dalla civiltà per vivere nei boschi, rappresenta l’abbraccio finale ad una libertà che più volte gli è stata negata.
Ci sono degli elementi che accomunano tutti i film sui licantropi: il bosco, i sensi di colpa e l’incatenamento. Nel bosco ci andiamo per ritrovare noi stessi. Un grande luogo di mistero in cui vige l’ignoto, e di cui abbiamo paura di avventurarci. Ma proprio quando arriviamo al culmine di quell’oscurità ci connettiamo con la nostra anima selvaggia, che risplende al chiaro di luna, pronta per essere scoperta. Quell’anima probabilmente non se ne andrà mai, anzi, tornerà sempre ogni qualvolta che saremo cattivi. E allora presi dai sensi di colpa diventiamo duri con noi stessi, malediciamo la nostra natura e preferiamo incatenarci e reprimere ciò che siamo pur di non fare del male a qualcuno. Il licantropo è quella parte di noi che, volenti o nolenti, prima o poi comparirà. Non c’è argento che tenga o incantesimi di alcun tipo. L’unica cosa da fare è controllare la bestia e capire che siamo anche questo. Nel bene o nel male.
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