Non lo ha oggi almeno.
Seriamente, sappiamo immaginare qualcosa che sia in grado di farci soccombere, come umanità, e come specie? Ogni esempio che ci viene in mente, è legato a una qualche sorta di incuria, o di incompetenza umana, o a una mancata coordinazione di interessi e sforzi collettivi. Insomma, ammettiamo soltanto che l’uomo possa, al limite, suicidarsi.
Quando non è questa la conclusione a cui si volge, è perché l’Ignoto prende la forma di un Flagello, una catastrofe di matrice naturale e imprevedibile, che viene ricondotta al risentimento di un Dio. L’inammissibilità di un tale Evento viene risolta dalla Fede. Fuga sopraffina da quell’Ignoto con cui si è costretti a fare i conti.
Ora, se questa prospettiva religiosa evidentemente non ci umilia, né ci esclude, poiché ci contempla all’interno di un progetto, o un supremo disegno, che in qualche modo ci giustifica, e ci dona rilevanza, l’alternativa più razionale e negatrice, non fa altro che elevarci direttamente allo status di Dio.
A chi altro si addice, in fondo, una tale invulnerabilità? I flagelli non ci sorpassano, ne sussistono oltre noi. Pure la peggiore delle catastrofi è riportata a misura d’uomo. In entrambi i casi, di ciò che è propriamente umano, rimane poco.
Forse, questa aridità di fantasia, se non addirittura di coraggio e di sincera passione, ha a che fare con la pretesa di un controllo sugli eventi, che accadono, e che siamo, così sfuggevoli e scivolosi. Specchi della nostra impotenza. Questa presa inferma sulle cose ci espone alla contraddizione che la grande fuga dall’Ignoto implica nel profondo: chi invoca il controllo su tutto, lo ammette persino su di sé. È così che rifiutare il flagello e l’imprevedibile, finisce per moltiplicarli e localizzarli; veniamo colpiti in maniera proporzionale al potere che millantiamo: non abbiamo concepito uno spazio per viverli autenticamente, quando si presenteranno a noi.
Questa pretesa si esplicita in due forme.
L’ironia e la violenza, che condividono in questi frangenti, una portata estraniante.
Forse va messa subito in chiaro una cosa: non sono propriamente strumenti difensivi, ma piuttosto, agiscono in noi, come specchi deformanti. Entrambe si annunciano come manifestazioni privilegiate della nostra partecipazione alle cose che subiamo. Eppure, ricorsivamente modellano la realtà da cui nascono, affinché questa le presuma.
L’ironia sfalda i piani del reale rendendolo inerme. È una strategia d’attacco. Tanto quanto una violenza, che quasi sempre gratuita, riformula gli assunti di convivenza e comunità di valori, imponendoceli alla luce della sua necessità.
La violenza diventa allora illusione di un eroismo sublimato. La più goffa delle discese in campo. L’ironia un inganno che assume la forma di una rivolta epurata da ogni ideologia e dogma. La più potente ed efficacie arma individuale che ci rimanga.
Di fronte a ogni catastrofe e tragedia – e non in mezzo, laddove la realtà è un po’ troppo intensa, e nei sui modi assurdi, già violenta e ironica di per sé, bensì di fronte – per entrare in esse, emotivamente o razionalmente, poco importa, forse solo per ammetterne l’esistenza stessa, ci affidiamo a questi due potenti mezzi: l’ironia ci permette di elevarci dal fatto, ridicolizzandolo e sradicandolo dal tempo e il luogo della sua presenza; ogni accadimento viene diluito nello smascheramento delle sue ambiguità. La violenza straccia ogni possibile sussistenza, e futura incursione, garantendo uno stato di alienazione e separazione dalla feroce insistenza di quei fatti.
Potremmo tra le altre cose pensare al Covid. E a quel ricordo, che, probabilmente, in coloro che sono stati abbastanza fortunati da non esserne stati colpiti duramente, è sbiadito e fastidioso, e non induce una sensazione di dolce rimpianto, né resiste in noi come una dolorosa persistenza. Ciò che ci resta è un tratteggio, sfocato come il significato che non siamo riusciti a dare a ciò che vivevamo.
Quella miscela di ironia e violenza che tanto ci sembrava ragionevole e intelligente, ci ha privato di ogni occasione di trascendenza. Da noi, non siamo mai usciti.
Rifiutiamo categoricamente il respiro sommesso e catarroso del Caso. Ma a questo rifiuto o segue un atto di partecipazione, che sia un massaggio cardiaco a ciò che di umano e vero rimane in mezzo alle macerie – poiché “rifiuterò fino alla morte di amare questa creazione in cui i bambini sono torturati” (“La Peste", Camus) -, o il destino che ci aspetta è quello di K. alle prese con il Tribunale (“Il Processo”, Kafka), e una sentenza che non ha senso di esistere, e viene temuta, e attesa, nel labirinto, tra gli ingranaggi di ciò che ci sfugge e ci schiaccia, lì, dove le esistenze che passano o sono passate hanno già perso ogni connotato e dignità e valore umano.
Dobbiamo accettare che la peste sia un filo nel tessuto del mondo.
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