A.H. “È vero. Già quando stavo girando Rebecca, nella scena in cui Joan Fontaine sveniva, volevo mostrare che provava una sensazione speciale, che tutto le si allontanava prima della caduta. Mi ricordo sempre che una sera, al ballo del Chelsea Art, all’Albert Hall di Londra, mi ero ubriacato terribilmente e avevo avuto questa sensazione; tutto si allontanava molto da me. Ho voluto ottenere questo effetto in Rebecca, ma invano, perché questo è il problema: restando fisso il punto di vista, la prospettiva deve allungarsi. Ci ho pensato per quindici anni. Quando me lo sono chiesto di nuovo nella Donna che visse due volte, il problema si è risolto servendosi del Dolly e dello zoom, simultaneamente."
Questa la citazione del regista Alfred Hitchcock durante la lunga intervista avuta con François Truffaut nel corso di una settimana estiva del 1962.
Il dialogo tra i due registi, che si può trovare nel libro “Il cinema secondo Hitchcock”, tra i vari spunti di riflessione e curiosità presenta il tema del cosiddetto Dolly Zoom Effect. Questa tecnica cinematografica è stata concepita per la prima volta dal fotografo Robert Burns in “Vertigo”, film diretto da A. Hitchcock con il titolo italiano di “Donna che visse due volte” e consiste in una variante dello zoom classico. Per spiegarla in maniera semplice, il Dolly zoom è un effetto in cui il soggetto rimane sullo schermo senza cambiare la sua dimensione mentre la macchina da presa si avvicina o si allontana da esso. Da molti viene chiamato appunto Vertigo effect, e si ottiene combinando due metodi tradizionali di ripresa, ovvero lo zoom e la carrellata. Per chi si stesse chiedendo cosa sia quest’ultima, un esempio frequente è quando vengono inquadrati uno o più soggetti che camminano. Se la cinepresa è alle loro spalle e avanza allora si definisce “a seguire”, se invece è di fronte a loro e arretra allora è “a precedere”. Lo scopo del suo impiego è quello di consentire un’immagine che sia stabile e fluida.
Il Dolly zoom viene spesso inserito come mero accento stilistico, ma nel caso del film Vertigo (1958), Hitchcock vuole rappresentare uno stato d’animo. Il protagonista, interpretato da James Stewart, in seguito a un evento traumatico, sviluppa una fobia nei confronti delle altezze, ma soprattutto la paura di cadere nel vuoto affacciandosi da una sommità. Il regista, quindi, vuole riprodurre la forte acrofobia legata al personaggio e trasmetterla allo spettatore, facendosi portavoce della tecnica narrativa “show, don’t tell”, ovvero mostrandola solamente, senza servirsi di ulteriori spiegazioni.
Talvolta si fa riferimento al Vertigo effect anche con il termine di Sindrome di Alice nel paese delle meraviglie, espressione medica che descrive la percezione alterata non solo della forma di persone e oggetti attorno a noi, che possono sembrare più grandi o più piccoli rispetto al normale, ma anche dello trascorrere del tempo. In senso lato e non patologico, ciò che può accadere durante lunghe camminate faticose o in stati di ubriachezza come diceva lo stesso A. Hitchcock. Inutile dire che, da quando lui e il suo collaboratore R. Burks l’hanno concepito, molti altri registi ne hanno fatto ampio uso. Da “Lo Squalo” di Spielberg al “Signore degli Anelli” di Peter Jackson.
Ciò che riesce a trasmettere questo effetto, non è solo il turbamento, ma anche la sensazione di confusione che tutti abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita. La compressione o l’estensione di questo sfondo che sembra avvicinarsi o allontanarsi dal primo piano è come se schiacciasse la realtà stessa. Ed è proprio questo rimanere smarriti che delinea il cinema Hitchcockiano, un legame invisibile tra l’onirico e ciò che è reale, tra il conosciuto e lo sconosciuto.
Fonti: Truffaut F., Il cinema secondo Hitchcock
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