I Futuri Perduti sono tutti futuri irrealizzati, sparsi nel passato, e naufragati in esso. Rappresentano ucronie spesso venate di una malinconia disillusa; rimpianti che hanno la forma della Storia; una vaga nostalgia di ciò che mai si è realizzato, ma si è a lungo pensato e desiderato, che è esistito come una virtualità gravitazionale, a cui tutto pareva tendere. Non sono soltanto Futuri Possibili, futuri che un tempo furono probabili, o infinite e inesplorate ramificazioni di un tempo che percepiamo illusoriamente come omogeneo.
Sono speranze disattese, linearità troncate. Avremmo voluto quei Futuri.
Tornare e indagare quei Futuri, e fonderli a un presente che ne ha usurpati altri, li rende consistenti, quasi materici nella rilevanza che occupano all’interno della nostra capacità di immaginare l’istante successivo, e tra gli strumenti che usiamo per fotografare il mondo.
Sanno dirci molto su quanto abbiamo perso; e in quanto immagine-in-negativo del Reale e suo evidente turbamento, sulla nostra volontà di fuggirlo, e ampliarlo, e proiettarlo oltre la Storia.
Questa interazione con i sogni e le aspirazioni del passato è mossa da una domanda: se tutto fosse andato diversamente?
A cui non abbiamo il coraggio di dare una risposta; esplorare e toccare con mano il roboante accadere degli eventi da cui siamo stati esclusi è un’esperienza poco consolatoria, e irta di assenze.
Perciò, quando siamo chiamati a rappresentare tali Futuri Perduti, nella nostra elusione, tutto si mescola sotto la lente della nostra esperienza, e dell’oggi che persiste. Queste dolci e nostalgiche alternative non diventano per noi piani di evasione, ma piuttosto, occasioni per sfumare e diluire il presente, o riscrivere, reimmaginare il nostro, imminente Futuro.
E quando questo è sfuggente, o impensabile, quando la storia finisce - nel senso descrittoci da Fukuyama - ne sentiamo la necessità
Mark Fischer appropriandosi di un termine centrale nel pensiero di Derrida, ridefinisce il concetto di Hauntology - una deviazione dal concetto ben più familiare di Ontologia, che gioca con il verbo ‘To haunt’, infestare – calandolo nella musica e nel cinema, e rendendolo traccia di un sentire comune nato attorno alla consapevolezza che, citando un album di un artista che lo stesso Fischer individuerà essere un significativo rappresentante della musica ‘hauntologica’ – The Caretaker -, la consapevolezza che, ‘Sadly, the Future Is No Longer What It Was’ - purtroppo, il futuro non è più quello che era.
E così Fischer individua un diffuso movimento sotterraneo, un crepitio di fondo, che infesta i topoi narrativi, e l'estetica delle opere che si affermano sul terminare del XX secolo. L'ossessiva e mutua inferenza tra presente e passato, si traduce in una disperata convergenza di immaginari lontani. I fantasmi sono i privilegiati abitanti di questa disgiunzione temporale, infestano e pertanto insistono su più luoghi, tempi, e li strappano alla loro stessa presenza.
In un certo senso, non possiamo farne a meno, quando sentiamo incombere gli anni a venire, o le ferite di ieri ancora sanguinano, il realismo è di troppo. Già ogni cosa, ci parla di noi.
L’estraneità che però provocano le opere che individua Fischer hanno a che fare con una versione spettrale del realismo; non c’è quasi nulla di propriamente astratto, inimmaginabile, o banalmente lontano.
Sono piene di ombre di surrealismo, e di fantastico, in ambienti familiari nei quali ci riconosciamo e ci sentiamo al sicuro; è il volto di una madre che ha tratti sospetti, sconosciuti, e tu li noti appena.
Esemplare, più di questo atteggiamento, che di ciò che probabilmente intendesse Fischer, è la coincidenza che nel 1988 vede uscire contemporaneamente in Giappone – vengono proiettati insieme uno dopo l’altro – due film dello studio Ghibli: Il mio vicino Totoro e Una tomba per le lucciole. Il primo è a opera del celebre Miyazaki, il secondo di Isao Takahata.
Entrambi testimoniano un paese alle prese con la guerr* e poi il periodo dissestato del dopoguerr*, pur se da due prospettive diverse: il film di Takahata con una spietata aderenza ai fatti, racconta i grappoli infuocati piovere dal cielo e la Fame, quello di Miyazaki è una fiaba ambientata durante gli anni successivi, per come sarebbero dovuti essere.
Diventano significativi se considerati l’uno il contraltare dell’altro: prodotti insieme, proiettati insieme, inseriti uno accanto all’altro nella stessa locandina.
Il mio vicino Totoro è una fiaba fantastica ambientata nei dintorni immacolati di Tokyo in quelli che sarebbero dovuti essere i primi anni Cinquanta, ma non ci sono Tempo né coordinate. La natura domina ogni angolo del paesaggio, le impronte dell’uomo sono furtive, le case sono rigurgitate dai campi e dai boschi, e i contadini sono appendici della terra, e suoi frutti. Due sorelle entrano in contatto con gli spiriti che partoriscono e sono partoriti da quell’edenica porzione di mondo, e in essi scoprono un piccolo universo che pur se invisibile è in continuo dialogo con il loro.
Il Giappone degli anni Cinquanta però non era come quello dipinto da Miyazaki; non solo nel paesaggio: è un paese senza macerie ed eredità.
Non c’è turbamento, né traccia del passaggio umano, nulla che stracci o pieghi quell’armonia. Simboli di Dei antichi, lo rendono un piccolo mito contemporaneo.
Tutto nel film cospira per offuscare la temporalità, e porta lo spettatore in un eterno Giappone dell’anteguerr*. Come fosse soltanto un’illusione, un tempo che poggia su troppi altri.
Tra le linee però si intravedono le impronte di una Nazione che su quelle macerie si è rifondata, e che ha vissuto Hiroshima e ancora non si è risvegliata: le leggiamo in virtù dei parallelismi che lo unisco all’altro film, che nulla immagina, e si limita a rappresentare tutto crudelmente.
In una tomba per le lucciole, un fratello e una sorella rimangono orfani, in un paese in guerr*. Il paesaggio è tanto spoglio e polveroso da sembrare lunare, e i cielo rosso di fuoco. Lottano per sopravvivere, vivendo per le campagne, rubando, non sfuggendo mai alla realtà delle cose.
In entrambi i film i protagonisti sono due fratelli/sorelle, e le madri in entrambi stanno male: una per le bomb*, l’altra invece - ne Il mio vicino Totoro - è malata; il più grande dei due, fa da genitore al più piccolo, per sopperire all’assenza del padre. In una tomba per le lucciole, le lucciole, catturate per far luce in una caverna che ormai fa da casa ai due bambini, muoiono il mattino dopo, riempiendo la pietra di corpicini. in Totoro l’analogo lo troviamo nei nerini del buio, piccoli spiritelli che si annidano nell’ombra e guidano le due sorelle alla scoperta dei segreti del bosco confinante con la loro casa.
Alla deriva di ogni sogno, si oppone la dimensione onirica come dimensione di salvezza e resistenza. L’ineluttabile a confronto con l’immaginifico.
Eppure, nel film di Miyazaki il fiabesco del ‘come sarebbe potuta andare’ è disturbato dal com’è andata; sono gli spiriti a (dis)incarnare questo scardinamento temporale. Quel Futuro Perduto che si mescola alla contemporaneità e la sommerge, si mostra in modo incredibile in una rapidissima sequenza: le due sorelle, aiutate da Totoro, fanno crescere in un istante un albero enorme, che sale verso il cielo e la cui chioma si apre, come una grande nuvola, donando a quel miracolo, la forma, tanto dolorosa e familiare di un grande ascendente fungo.
Questa scelta, forse, ambientare tanta magia, nel ‘mai più’ piuttosto che in un plateale e dichiarato fantastico,si può spiegare solo attraverso quel: ‘Sadly, the Future Is No Longer What It Was’.
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