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Davanti al dolore degli altri: immagini di guerra

Immagine del redattore: tentativo2lstentativo2ls



“Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei” diceva Ernst Jünger.


Dimmi come lo pensi, come lo osservi, quante volte hai pensato che non ti riguardasse e ti dirò chi sei.


Eppure, nell’odierna società palliativa, il dolore pare resistente al significato. Il dolore è la negatività per antonomasia, i pensieri negativi vanno assolutamente evitati e sostituiti da pensieri positivi.

Ad oggi si impone nell'uomo una algofobia, ovvero una paura generalizzata del dolore, che ha come conseguenza un’anestesia permanente da tutto ciò che può far soffrire, che è segno di debolezza. Questo aspetto si estende in tutti gli ambiti sociali, per esempio nella politica: i conflitti e le controversie potrebbero condurre a confronti dolorosi, scomodi, per questo si preferisce seguire la spinta del conformismo e la pressione del consenso.


Nietzsche riconduce al dolore la sua trasvalutazione di tutti i valori, essa costringe lo spirito a un radicale cambio di prospettiva che fa apparire ogni cosa sotto una nuova luce. Il dolore mette in moto dei processi riflessivi conferendo allo spirito la “chiarezza dialettica per eccellenza”.

Il filosofo tedesco aveva già visto arrivare la società avversa al dolore, a caratterizzarla è proprio un senso vitale fortemente ridotto.

È proprio l'assenza di senso che la società attuale attribuisce al dolore a rendere insopportabili le sofferenze, disimpariamo come si fa a rendere il dolore raccontabile, renderlo un linguaggio, dargli una direzione, una narrazione, riscoprirlo.

Sempre Jünger, sulla sofferenza, cita i media moderni affermando che rendono l'essere umano insensibile nei confronti del dolore, poiché svolgono una funzione puramente intrattenitiva e superficiale.


In particolare Jünger si sofferma sulla fotografia definendola “esterna alle zone della sensibilità”, caratterizzata da uno sguardo gelido.


Nel 2003 Susan Sontag, scrittrice e intellettuale a tutto campo, pubblicava il libro Davanti al dolore degli altri, un saggio in cui esplora principalmente il rapporto tra fotografia e scene di guerra.

L’autrice riflette sulle potenzialità e i limiti delle immagini, passando dalla pittura ottocentesca alle famose fotografie di reportage, esplorando, con le immagini, l'orrore e la violenza.

A questo punto la domanda sorge spontanea: si può comunicare il dolore tramite l’immagine? È possibile riprodurre il dolore senza mistificare la realtà dei fatti oppure cadere nel voyeurismo?


In questo mondo che prende sempre più la forma di una gabbia sedativa, occorrono degli stimoli sempre più forti perché si abbia il senso di esser vivi, che cosa riesce ancora a suscitare un'esperienza dell'Io?


Intanto che l'umanità si attarda nella caverna di Platone, l'accesso a immagini di dolore e violenza nei mass media ci costringe alla passività e all'indifferenza tipiche dello spettatore che tace. Gli annunci di morti nella realtà vengono accettati senza troppe riflessioni, il flusso di immagini spietate ci impedisce di privilegiarne una. Attraverso le fotografie un evento diviene certamente più reale e conosciuto di quanto lo sarebbe stato se non le avessimo mai viste, ma finisce per diventare meno reale quando si è ripetutamente esposti a quelle immagini. Ma è davvero così?


Oggi esiste una raccolta di immagini così vasta che rende difficile mantenere attiva una simile forma di carenza morale. Le immagini hanno una funzione vitale, ci parlano e ci mostrano ciò che gli esseri umani sono capaci di fare.


Scrive Sontag: “Possiamo distogliere lo sguardo, voltare pagina, cambiare canale, ma questo non vanifica il valore etico delle immagini da cui siamo assaliti. Non è un difetto non esserne devastati, non soffrire abbastanza, quando le vediamo. E non spetta a una fotografia il compito di rimediare alla nostra ignoranza della storia e delle cause delle sofferenze che essa individua e inquadra. Tali immagini sono un invito a riflettere, apprendere, analizzare le ragioni con cui le autorità giustificano le sofferenze di massa”.


Le domande da porsi sono le seguenti: chi ha provocato ciò che l'immagine mostra? Chi ne è responsabile? Si sarebbe potuto evitare? Abbiamo finora accettato uno stato delle cose che invece andrebbe messo in discussione?

Susan Sontag fin dalle prime pagine ci mette di fronte a questo grande dilemma morale, ma in definitiva spetta a noi e alla nostra interpretazione il giudizio finale, la fotografia è uno dei tanti strumenti a nostra disposizione per indagare la realtà e, da sola, fa poco.


La guerra continua a sconvolgerci, si espande, distrugge quei legami che ci rendono umani con una violenza tale da poterne fare esperienza anche attraverso un'immagine che, in un modo o nell’altro, attira la nostra attenzione e a quel punto siamo inorriditi, siamo lontani (per nostra fortuna), ma siamo coinvolti.

Nel tempo e nella storia alcune fotografie sono diventate emblemi della sofferenza e anche a distanza di anni rimarcano il loro peso nelle nostre coscienze e nei nostri ricordi.


Per l’oggi e per il domani abbiamo bisogno di ogni singola goccia di sensibilità e empatia, solo così facendo dimostriamo coraggio, il coraggio di abbandonare ogni finta sicurezza per poter affrontare al meglio la sofferenza, nostra e degli altri.


Perché guardare La Pietà di Gaza, immagine vincitrice del World Press Photo 2024, fa male, molto male.

 
 
 

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