
Il 19 aprile 2024 è venuto a mancare Daniel Dennett, filosofo della mente americano i cui lavori pionieristici nel campo della coscienza hanno segnato un epoca di studi scientifici ed accademici.
Studente del logico Willard Orman Quine, poi del filosofo Sellars, Dennett è stato una delle più rilevanti figure accademiche di fine novecento ed inizio duemila.
L’intero suo studio, orbitando attorno al filone della filosofia della scienza, ha sempre tenuto il suo nucleo nel caso scientifico della coscienza.
Il suo spirito può indubbiamente descriversi materialista; il suo intento quello di epurare le discussioni scientifiche e filosofiche riguardo la natura del fenomeno cosciente; il suo metodo un attento approccio analitico, che come un affilato coltello ha reciso con limpidità gli enormi paradossi logici e dialettici provenienti dal senso comune, già studiato in altri ambiti della filosofia analitica, avvezzo a centrare i termini in cui tali discussioni evolvevano, e ristagnavano, finendo così per distorcerle a causa delle inconsistenze metodologiche a monte; tutto corroborato ad una intelligenza sensibile al confronto, attenta nell’esasperare solo la sottigliezza delle idee piuttosto che lo scontro personale con i tanti profili accademici che per anni si sono fervidamente opposti alla sua visione.
Il materialismo di Dennett aveva come fine strutturare una teoria della coscienza che potesse dissolvere il muro concettuale che da più di trecento anni scindeva materia da esperienza, rendendo irriducibile l’una ed intentabile qualunque visione unitaria: il dualismo cartesiano.
Storicamente, l’intuizione di una mente come anima che movesse l’intero corpo, scissa da esso e proveniente da altri luoghi, era opinione egemonica; avvenne poi il movimento delle scienze cognitive degli anni 60’ e 70’, culminate nella fioritura delle neuroscienze e delle nuove filosofie della mente postulate da eminenti studiosi come Douglas Hofstadter e Roger Penrose, rispettivamente informatico e fisico i cui testi Godel, Escher, Bach e La mente nuova dell’Imperatore, seppure diametralmente opposti, donarono rispettabilità e lustro al campo; a questo convenne lo stesso Dennett, che sancì la completa integrazione dell’ambito ad una metodologia coerente.
Nella sua opera prima, Conscious Explained, Dennett illustra attraverso un linguaggio morbido ed una logica chiara l'idea che tutt'oggi è divenuta centrale nella spiegazione del fenomeno cosciente: esso, invece che essere considerato netto ed inconciliabilmente distinto alle forme fisiche, diviene un prodotto graduale e dinamico delle attività cerebrali del nostro cervello; la parola mente, invece che indicare una sorta di identità statica, quasi oggettifica, corrisponde ad un evento; la mente è ciò che il cervello fa. È molto comune osservare tale prospettiva, anche se non postulata in questi esatti termini dal filosofo, in molte delle posizioni moderne.
La derivazione dunque conserva, per Dennett, una compattezza generale; la comprensione parallela di come l'integrazione di informazioni percettive e sensoriali costituisca il corpo primario dell’esperienza soggettiva estende la chiarità a cui la spiegazione nel libro tende.
Dennett individua una chiave differente da cui guardare l’intero processo fenomenico: esso non è costituito né di parti a sé stanti, né di una unità completa, corrispondente, nella neuroanatomia a sua detta più ingenua, alla semplice interazione delle diverse aree fisiche del cervello; tale fenomeno viene invece letto come un insieme di funzioni, specifiche ma sovrapposte, dove risiede ed in cui evolve; ogni esperienza, ogni parte corporale a cui è ricondotta, non vengono viste come oggetti d'indagine ma come pure funzioni frutto di un arcaico processo evolutivo; che, attraverso l’equilibrio di necessità contingenti ha delineato i limiti e le forme di ogni cosa che ci è data esperire.
Improvvisando un’analogia, se prima il rapporto corpo-mente era rispettivamente simile a proiettore-immagine proiettata, ora la prospettiva cambia; la mente non è né il corpo meccanico, né il suo effetto qualitativo; essa è l’evento, l’atto in cui dal proiettore iniziano a diffrarsi le luci nell’ombra, che corrispondo all’esperienza ossia la conseguenza dell’intero arco procedurale.
Il Funzionalismo, sua posizione fondamentale, ripropone il fatto che ciò che vediamo è non solo il limite di ciò che conosciamo, ma pure il risultato assai particolarizzato di necessità di sopravvivenza; come un prestigiatore che illude lo spettatore, allo stesso modo la nostra stessa consapevolezza ci induce in impressioni delle nostre capacità coscienti effettivamente distorte; Dennett, con la sua ispezione sospettosa, inverte il processo ed espone il modo in cui si cade in considerazioni imprecise, la cui scollatura alla realtà è causa prima delle nostre ingenuità scientifiche.
Rimangono, in tale teoria, i capi saldi delle ricerche empiriche: dall’essenzialità dell’ippocampo in cui la neurogenesi ha luogo, fino alla cardinalità delle funzioni visive, per Dennett autrici dirette dei nostri limiti, coordinate nella zona occipitale del cranio; al vaglio passano le ipotesi delle scienze cognitive e dalla psicologia dell’apprendimento: dalle visioni di Chomsky sulla grammatica universale, le capacità a priori di sintassi del cervello del bambino, sino al costruttivismo cognitivo di Jean Piaget.
Attraverso l’analisi filosofica, Daniel Dennett viene da molti considerato colui che è meglio riuscito a sviscerare le inconsistenze teoretiche che da tempo hanno annebbiato la ricerca.
Aldilà della posizione che si assume nel dibattito, non di certo concluso né scalfito di problemi ed attenzioni, è da riconoscere l’influenza di questo pensatore che ha permesso il confronto a tante delle teorie che gli sono susseguite, dalle osservazioni di John Searle all'informazione integrata di Tononi; dagli studi di Koch passando per le diverse riflessioni di Hameroff fino al duro scetticismo di David Chalmers, che proprio nei tanti confronti a distanza con Dennett ha definito i termini del dibattito in maniera ancor più selettiva.
In un campo di estrema incertezza come quello degli studi sulla coscienza, assumere con assenza assoluta di dubbio una posizione diviene più scommessa che consapevolezza; i problemi inerenti all’inestricabile filo che lega le semplici interazioni fisiche alle qualità sensibili che ogni attimo assorbiamo e che appaiono avere poco di simile a modelli schematici di interazioni neuronali, rimangono tanti.
Il dibattito accademico continua, anche con delle voci provenienti dall'Italia: gli studi della cognizione ed una maggior comprensione dell'importanza di una prospettiva internalista, seppure osservata in un comportamentismo aggiornato della ricerca, iniziano, per molti, a suggerire una via percorribile per risalire il percorso conoscitivo che ancora rimane ignoto.
Daniel Dennett, le sue opere saggistiche e paper accademici come il classico “Chi sono io?”, hanno lasciato un'impronta riconoscibile nello spirito della conoscenza del nostro tempo.
Arrivano, proprio negli ultimi anni di approfondimento ed ampliamento dell’ottica recente da lui condivisa, denominata strumentalista, indizi per altre prospettive in cui il perno centrale non è più la sola riflessione, come fondazione irriducibile; una proposta, crescente soprattutto nel campo dell’etologia neuroscientifica, è la velata centralità che il movimento appare avere in tutta l’esperienza ed in tutto il mutamento del grande percorso biologico che congiunge ogni essere all’altro.
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