
Non esiste attentato più blasfemo all’Arte e alle sue oltre-possibilità dell’assillante ricerca di un qualche senso da imporle.
Ogni espressione monolitica (agognata dallo spettatore o, Dio ce ne scampi, arrogata a priori dal sedicente artista) è la volgarità dell’Arte, la sua metamorfosi in asettica merce d’intrattenimento museale, la sua spettacolarizzazione più becera, il suo “imputtanamento”. Che questa illusione semantica sia quella dell’aristotelica dittatura della μίμησις (“il senso dell’Arte è essere specchio fedele della realtà”) o quella più recente, sessantottina, dell’engagement politico e sociale, poco importa: ogni pretesa d’un immaginario significato o funzione dell’opera è la più zotica delle profanazioni possibili. Il significato non è che un sasso in bocca al significante; Stop Making Sense!, come ci insegnano i Talking Heads.
Tali principi dell’anti-estetica di Carmelo Bene sono oggi, nell’era dell’iper-politicizzazione delle pratiche artistiche e della critica demagogica da bar, più urgenti che mai. Vi basta trovare il coraggio di leggere il catalogo della Biennale di Venezia di quest’anno, Foreigners Everywhere, per capirlo. E’ giunto ora il momento di far imperativamente brillare, detonare questa facciata della funzionalità dell’Arte, detronizzare la dittatura del “senso”. L’Arte, per non limitarsi a essere arte (cioè sterile artigianato materico o pleonastica allegoria impegnata), deve vantarsi dell’incomunicabilità esistenziale dei suoi limiti, spingerli al corto-circuito, e non celarli dietro la maschera di un qualche coinvolgimento o narrazione “ulteriore”. Morte all’ars adeo latet arte sua ovidiano: l’Arte è al contrario proprio anti-mimesis, dichiarato falsificazionismo, asserito e proclamato sfoggio della sua inutile e inutilizzabile afasia. Nel tempo dell’omni-funzionalità, nel quale tutto deve produrre e essere efficace, il vero sovvertimento innescabile dall’Arte sta esattamente nel diritto all’assenza di ogni essenza. Contro ogni pretesto narrativo, contro ogni giogo realista, l’opera d’arte deve divenire massimalista, esplicita nella sua artificiosità, in una sorta di orgasmo barocco finalmente libero da ogni costrizione mimetica.
Cosa mancava in effetti all’orgia barocca? Proprio la fotografia, a lungo ritenuta a torto concorrente dell’arte tradizionale in quanto inarrivabile copia del reale e rivelatasi invece esserne l’unica vera redentrice, in grado di salvare la produzione artistica dalle più infime operazioni mimetiche e comunicative delle quali era meccanicamente ostaggio. Parmenideanamente, oltre gli ὄντα, l’ὤν.
Non si pensi tuttavia a una banale riduzione al formalismo: nell’indicibilità assoluta dell’Arte sta l’unica possibile liberazione dell’artista, che cessa di essere un artigiano subordinato all’enunciazione, come nemmeno l’espressionismo astratto americano di Pollock o l’informale europeo di Wols, troppo presi ad accomodarsi nel vicolo cieco degli archetipi psicanalisti, avevano saputo davvero fare. Come disse Jean Cocteau, un vero film (e tutta l’Arte, aggiungiamo noi) non può essere raccontato: l’opera deve appunto essere indicibile e lo spettatore esserne afasico martire. Nel momento in cui si può parlare di un’opera d’arte, descriverla o addirittura spiegarla, questa cessa di esistere, avendo dimostrato di poter essere sminuita a puro linguaggio, forma o “senso”. Di più, l’uso stesso del linguaggio con la sua intrinseca natura violenta e dittatoriale (Foucault) va abolito. Ogni critica, oggi ridotta a mera recensione del prodotto artistico, incarna la crocifissione, il martirio dell’opera stessa, volgarizzata in banale “tesi”.
Si tratta della realizzazione del golpe del rizoma sull’albero predetta da Bene e Deleuze: il sistema gerarchico e arborescente di un mondo leibniziano, hegeliano, ingenuamente positivista, nel quale tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale, è sovvertito da quello decentralizzato del rizoma (la patata, per intenderci), orfano di ogni ordine o gerarchia. Il gesto artistico non solo cessa di essere imitazione di una qualche realtà esteriore, ma arriva infine a distaccarsi anche da ogni senso “interiore”, da qualunque pretesa espressiva (contro, come detto, l’impasse dell’espressionismo astratto). E’ la lezione della musica punk, che nasce proprio quando la drum machine non è più usata come replica economica della batteria (quindi inevitabilmente destinata a esserne un’inferiore imitazione), ma piuttosto compresa come una realtà a sé da esplorare nelle sue possibilità tecniche irraggiungibili dalla batteria tradizionale stessa (velocità, precisione, meccanicità computerizzata).
L’Arte come atto de-pensato e puro, heideggerianamente s-progettato, come non-esserci; manifestazione e manifesto dell’incomunicabilità gorgiana, antoniana, babelica dell’assurdità umana, baluardo della rottura deleuziana del linguaggio e della lingua. Si deve fare Arte dell’arte e dall’arte, ghigliottinandone la dimensione prosaica affibiatale del Κρόνος (il tempo ordinato, cronologico e sequenziale, cioè narrativo) per ricondurla infine a quella dell’αἰών (il tempo poetico, eterno e iper-uranico del significante, immune a ogni narrazione o significato).
Solo così si può sperare di annientare i mostri istituzionali dei musei e delle gallerie, epitomi dei non-luoghi di Marc Augé, templari della spettacolarizzazione hollywoodiana dell’arte, lager per turisti che abusano del loro tempo “incomprensibilmente” libero.
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